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Gaza, la notte più lunga del cessate il fuoco: raid israeliani, almeno 50 morti. Trump: “Nulla metterà a rischio la tregua”

Una scena in pronto soccorso, un numero che graffia e una frase che spiazza: mentre a Nuseirat medici e volontari contano i feriti dei raid del 29 ottobre, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump assicura che “nulla” può compromettere la tregua iniziata il 10 ottobre. L’uccisione del riservista israeliano Yona Efraim Feldbaum, 37 anni, a Rafah, ha innescato ore di bombardamenti.

Gaza, la notte più lunga del cessate il fuoco: raid israeliani, almeno 50 morti. Trump: “Nulla metterà a rischio la tregua”

Gaza, la notte più lunga del cessate il fuoco: raid israeliani, almeno 50 morti. Trump: “Nulla metterà a rischio la tregua”

La barella arriva di corsa all’ingresso dell’ospedale Al Awda, a Nuseirat. Sopra, un bambino con il volto impolverato stringe un quaderno bagnato. “È tutto quello che gli è rimasto”, bisbiglia un infermiere. Nel caos di sirene e garze, la Difesa civile di Gaza aggiorna le cifre: “almeno 50 morti, tra cui 22 bambini, e circa 200 feriti” dopo i bombardamenti della notte tra il 28 e il 29 ottobre. Pochi minuti dopo, dall’altra parte del Mediterraneo, Donald Trump spiega ai giornalisti a bordo dell’Air Force One che i raid “non mettono a rischio il cessate il fuoco” e ribadisce che Israele ha “il diritto di rispondere” se attaccato. In Israele, intanto, le Forze di difesa confermano la morte del riservista Yona Efraim Feldbaum, caduto il 28 ottobre nella Striscia.

Le guerre moderne producono conteggi che cambiano di ora in ora. Le 50 vittime annunciate alle prime luci del 29 ottobre dalla Difesa civile di Gaza — includendo almeno 22 bambini e circa 200 feriti — sono state registrate da vari ospedali e confermate nelle loro linee generali da cronache sul campo. Nel corso della giornata, altre fonti hanno alzato il bilancio delle vittime causate dai bombardamenti notturni: alcune testate hanno parlato di oltre 100 morti. Le discrepanze dipendono da tempi di raccolta dati, duplicazioni iniziali o ritardi nell’estrazione dei corpi dalle macerie. Per il lettore, il dato cruciale è comprendere che il bilancio è in evoluzione e che le fonti concordano su un’ondata di attacchi di intensità eccezionale rispetto ai giorni precedenti.

Secondo la ricostruzione israeliana, nel settore di Rafah (sud della Striscia) un’unità dell’IDF impegnata in operazioni di demolizione di infrastrutture e tunnel a est della cosiddetta “linea gialla” — il limite di dispiegamento concordato nel quadro del cessate il fuoco — è stata colpita da fuoco nemico nel pomeriggio del 28 ottobre. A perdere la vita è stato Yona Efraim Feldbaum, 37 anni, riservista del Genio della Divisione Gaza. In alcune versioni, il colpo che lo ha ucciso è attribuito a un cecchino; in altre, a un RPG diretto contro un mezzo militare. I comandi israeliani definiscono l’episodio una “violazione” del cessate il fuoco. Hamas nega responsabilità e insiste sull’impegno a rispettare gli accordi.

L’identità del militare è stata resa nota poche ore dopo: Master Sergeant (ris.) Yona Efraim “Efi” Feldbaum, residente a Zayit Ra’anan (area di Binyamin), padre di cinque figli. La sua morte — riferiscono media israeliani — sarebbe la terza tra i soldati da quando è scattata la tregua. Anche qui, le versioni differiscono nei dettagli operativi, ma concordano su un punto: l’episodio di Rafah ha fatto riprendere ad Israele i raid aerei lungo l’intera Striscia.

La dichiarazione più discussa della giornata arriva da Washington. Parlando con i giornalisti, il presidente Donald Trump scandisce che “nulla metterà a rischio il cessate il fuoco” e che Israeledeve colpire” se i suoi soldati sono uccisi. È un messaggio di sostegno all’alleato, ma anche un test di tenuta per un accordo già scosso da reciproche accuse di violazioni. Le parole di Trump rimbalzano nelle capitali regionali nel momento in cui gli ospedali di Gaza City, Khan Younis e i campi profughi centrali registrano un’impennata di vittime.

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Nelle stesse ore, fonti della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato mantengono il registro pubblico sull’obiettivo dichiarato da settimane: consolidare una tregua “imperfetta ma necessaria” in attesa di progressi su dossier più strutturali (restituzione delle spoglie e dei detenuti, ritiro a ridosso della “linea gialla”, riapertura dei valichi per gli aiuti). La posizione americana, al netto delle condanne rituali delle “violazioni”, tende a disinnescare l’idea di un collasso immediato dell’intesa e a ribadire che la tregua resta l’unica cornice per trattare.

Nelle mappe operative condivise in sede negoziale, la “linea gialla” delimita l’area oltre la quale, in base al cessate il fuoco del 10 ottobre, le truppe israeliane si sono ritirate o hanno limitato la loro presenza attiva. È un confine fluido, privo di riconoscimento politico, ma dotato di forte valore militare: definisce dove un’operazione può essere considerata “di presidio” e dove diventa “di proiezione”, con implicazioni legali e diplomatiche. La fonte militare citata dai media israeliani sostiene che l’attacco a Rafah sia avvenuto entro la fascia di sicurezza concordata, dunque in violazione. Hamas, al contrario, ha contestato l’interpretazione, accusando l’IDF di “azioni provocatorie” ai margini di aree civili. In assenza di un meccanismo di verifica terzo e robusto, questa divergenza è destinata a ripetersi.

Nel fragile mosaico del cessate il fuoco c’è un tassello simbolico che pesa come il piombo: la gestione delle spoglie degli ostaggi israeliani morti in prigionia. Il 27-28 ottobre si è consumato un incidente che ha riacceso polemiche: la consegna a Israele di resti che, dopo analisi forensi, sono stati identificati come appartenenti a Ofir Tzarfati, ostaggio già riportato in patria circa due anni fa e sepolto. Per Gerusalemme si tratta di una “chiara violazione dell’accordo”. Hamas ha replicato parlando di difficoltà oggettive nel recupero delle salme in un territorio devastato, con catene di comando interrotte e archivi distrutti. L’episodio ha fatto slittare un’ulteriore consegna attesa per il 28 ottobre e ha irrigidito la postura del gabinetto di sicurezza israeliano.

In questo contesto, ogni funerale, ogni bara che attraversa un valico, diventa anche un messaggio politico.

L’ICRC (Croce Rossa) resta il principale canale di passaggio, ma la catena di custodia delle spoglie e l’attendibilità delle identificazioni sono minate da una realtà di scavi improvvisati, trasferimenti sotto fuoco, “doppi ritrovamenti” e possibili errori di catalogazione. L’incidente Tzarfati ha un impatto emotivo particolare in Israele, dove l’opinione pubblica è sensibilissima al tema del ritorno dei caduti.

gaza

Obiettivi e modalità dei bombardamenti

Nella notte tra il 28 e il 29 ottobre, gli attacchi israeliani hanno colpito diversi bersagli in più aree della Striscia: abitazioni nei campi di Bureij e Nuseirat, palazzine nel quartiere Sabra di Gaza City, e un’auto a Khan Younis. Alcune aree ad alta densità di sfollati — tende e strutture di fortuna — risultano tra le più colpite. Gli ospedali parlano di “afflussi ingestibili”, soprattutto di donne e minori. Le autorità israeliane giustificano l’operazione come “risposta mirata” a un attacco costato la vita a un loro soldato e come pressione su Hamas per riallinearsi agli impegni presi. A Gaza, la narrazione è opposta: “una violazione palese” della tregua e l’ennesimo colpo su aree popolate.

Che cosa prevede l’intesa del 10 ottobre

L’accordo che ha spento i fronti principali a partire dal 10 ottobre è nato da una mediazione multilaterale con forte regia statunitense. I suoi pilastri:

  • un ridispiegamento israeliano dietro la “linea gialla”;
  • un meccanismo di scambio che lega la liberazione di detenuti palestinesi alla restituzione di ostaggi (vivi e spoglie) israeliani;
  • l’aumento degli aiuti umanitari in entrata, con priorità a sanità e alloggi di emergenza;
  • una rete di contatto per “incidenti” e presunte violazioni.

È un compromesso operativo, non politico: non definisce il futuro di Gaza, non scioglie il nodo del disarmo di Hamas, non affronta lo status dei confini. Proprio per questo, l’accordo è esposto a crisi ricorrenti e richiede una gestione quasi quotidiana da parte dei mediatori.

Il rischio di un effetto domino

Ogni ondata di raid o di scontri a fuoco nella Striscia produce effetti a catena: pressioni sull’Autorità nazionale palestinese, movimento di milizie affini in Cisgiordania, frizioni con Hezbollah lungo il confine nord di Israele, tensioni nell’Egitto del Sinai per i flussi di feriti e aiuti, allerta per le rotte marittime nel Mediterraneo orientale. Il messaggio di Trump punta a circoscrivere la crisi. Ma la cronaca del 29 ottobre mostra quanto sia sottile la linea tra “incidente gestibile” e “rischio di riaccensione generalizzata”. In questa finestra, il ruolo dei mediatori (USA, Egitto, Qatar) è nel tenere aperti i canali tecnici: corridoi sanitari, verifiche di confine, scambi di informazioni forensi.

La dimensione umanitaria: ospedali al limite

Gli ospedali della Striscia, già provati da mesi di emergenza, descrivono una situazione “catastrofica”. Il sovraccarico riguarda sale operatorie, pronto soccorso, letti di terapia intensiva. Le interruzioni di energia — aggravate dall’andirivieni dei generatori — e la scarsità di medicinali essenziali (antibiotici, anestetici, emoderivati) riducono le possibilità di trattamento. Sul piano psicologico, i reparti pediatrici segnalano un aumento di shock acuti e disturbi d’ansia tra i minori. Le immagini che circolano da Gaza City e dalla zona centrale (Bureij, Nuseirat) raccontano sale d’attesa trasformate in camere di degenza e medici costretti a interventi di triage draconiani.

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