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28 Ottobre 2025 - 23:33
Trump a Tokyo, diplomazia con il driver: Terre rare, catene di fornitura e un patto che cambia il gioco indo‑pacifico
L’oro non sta solo nei lingotti. A Tokyo, nell’ampia sala dell’Akasaka Palace, luccica sul grip di una mazza: una putter appartenuta a Shinzo Abe, consegnata dalla nuova premier Sanae Takaichi a Donald Trump come omaggio e messaggio. È il passaggio del testimone di una relazione personale e politica che torna ad essere asse centrale dell’alleanza USA‑Giappone. Pochi minuti dopo lo scambio dei doni, le firme su un accordo‑quadro per mettere in sicurezza le forniture di terre rare e minerali critici, cuore invisibile delle filiere che muovono difesa, energia e digitale. Un gesto di sostanza, mentre Pechino rafforza i suoi controlli sulle esportazioni e brandisce la leva dei materiali strategici.
La novità politica in Giappone ha un nome e un’agenda: Sanae Takaichi, prima donna a guidare il Paese, insediata a ottobre 2025 dopo una stagione convulsa per la LDP e la nascita di un’intesa con Nippon Ishin. La premier ha scelto di accelerare sul dossier che più sta a cuore a Washington: portare la spesa per la difesa al 2% del Pil entro l’anno fiscale in corso, anticipando la tabella di marcia. La mossa è insieme segnale e scudo: rassicurare l’alleato e rispondere a un contesto regionale reso più instabile da Cina, Corea del Nord e Russia. Nel linguaggio politico di Takaichi, l’alleanza con gli Stati Uniti entra in una “nuova età dell’oro”.
U.S. President #DonaldTrump praised Japan’s first female leader, #SanaeTakaichi, in Tokyo, welcoming her pledge to boost military capabilities and signing trade and rare-earth deals. Takaichi, a protégé of the late #ShinzoAbe, highlighted his legacy and supported Trump’s efforts… pic.twitter.com/xU4O6yUx3Q
— Sajjad Kazmi (@sajjadkazmi946) October 28, 2025
Sul piano simbolico, la premier ha ricalcato il copione che rese celebre il rapporto personale tra Abe e Trump: oltre alla mazza, una golf bag autografata dal campione Hideki Matsuyama e una palla dorata hanno scandito la scena, mentre Takaichi ha persino ventilato l’idea di una candidatura di Trump al Nobel per la Pace. Il gesto fa eco alla stagione 2016‑2017 e serve a un obiettivo immediato: affermare leadership e continuità davanti a un alleato esigente e imprevedibile.
L’accordo firmato a Tokyo definisce una cornice di cooperazione su estrazione, raffinazione, riciclo e stoccaggio di terre rare e minerali critici, con l’impegno congiunto a mobilitare, entro sei mesi, strumenti finanziari e misure commerciali per alimentare progetti in Paesi “like‑minded” e assicurare output destinati ai mercati statunitale e giapponese. In altre parole: costruire ridondanza e resilienza lungo la catena, riducendo la dipendenza da un unico fornitore dominante. Il testo, anticipato dalla Casa Bianca, si inserisce in una strategia più ampia che vede Washington siglare intese analoghe con Australia, Malesia e altri partner indo‑pacifici.
Perché è cruciale? Perché la Cina detiene oltre il 70% dell’estrazione mondiale e più del 90% della raffinazione di terre rare e magneti ad alte prestazioni. Il Ministero del Commercio di Pechino ha appena esteso i controlli all’export includendo elementi come olmio, erbio, tulio, europio e itterbio, oltre a lavorazioni e macchinari: restrizioni che, pur non equivalendo a un blocco totale, introducono licenze e incertezze che già impattano su automotive, energia e difesa. L’intesa di Tokyo punta a neutralizzare proprio quella leva.
US President Donald Trump has hailed the friendship between the USA and Japan, speaking to US troops stationed on an aircraft carrier near Tokyo. #trump #usa #japan #sanaetakaichi #globalrelations pic.twitter.com/ARwoMjjJL7
— 7NEWS Australia (@7NewsAustralia) October 28, 2025
Dal lato giapponese, la partita mineraria si lega anche alla sicurezza energetica: Tokyo sta aumentando gli acquisti di GNL dagli USA per diversificare le forniture, mentre mantiene ancora vincoli industriali con progetti legacy come Sakhalin‑2. Una riorganizzazione delle catene che, se porterà investimenti stabili in raffinerie e impianti di separazione anche in Asia sudorientale, potrebbe ridurre la volatilità dei prezzi e la vulnerabilità a misure unilaterali.
Il tempismo non è casuale. A due giorni da un atteso incontro tra Trump e Xi Jinping in Corea del Sud, l’accordo con Tokyo offre a Washington una leva negoziale in più, in un momento in cui Pechino ha alzato la soglia di controllo su esportazioni e tecnologie. Negli ultimi mesi, i toni si sono fatti più aspri anche sul piano verbale: il Segretario al Tesoro Scott Bessent ha accusato la Cina di “voler trascinare giù gli altri”, mentre la Commissione UE ha espresso “preoccupazione” per gli impatti sulle catene industriali europee. Sul tavolo c’è la stabilità delle forniture nei prossimi 12‑18 mesi, una finestra in cui la domanda di magneti per veicoli elettrici, turbine eoliche, sistemi radar e missilistica è destinata a crescere.
Per Pechino, la stretta sulle terre rare è strumento di pressione e di gestione del consenso interno. Per Tokyo e Washington, rafforzare cooperazioni e stockpiling è assicurazione contro shock regolatori e ricatti di mercato. L’accordo USA‑Giappone fotografa questa reciproca consapevolezza e mette nero su bianco un percorso con tempi e strumenti definiti.
Nel colloquio bilaterale è entrata con forza la dimensione militare. Due i pilastri:
Sul fronte aeronautico, Tokyo resta il più grande cliente estero del F‑35, con un programma di 147 velivoli tra F‑35A e F‑35B: le versioni STOVL sono destinate alle portaerei leggere ricavate dalle classi Izumo e Kaga, già in fase avanzata di conversione. Le prime unità F‑35B sono state dispiegate a Nyutabaru; un secondo squadrone è previsto entro la fine del decennio, parallelamente ai lavori sull’isola di Mageshima per il training. Nel frattempo, la discussione su possibili ulteriori ordini o upgrade resta aperta, anche per via delle incognite del programma GCAP con Regno Unito e Italia.
In questa cornice, è plausibile attendersi che Washington spinga per più interoperabilità, supply chain condivise e co‑produzione su sensori, propulsori e munizionamento guidato. Per Tokyo, la partita è duplice: dotarsi di capacità credibili di counter‑strike e agganciare le filiere statunitensi per non restare esposta a colli di bottiglia.
Accanto alla sicurezza dura, scorre un fiume di numeri. Da mesi è in lavorazione un pacchetto di investimenti giapponesi negli USA quantificato in circa 550 miliardi di dollari, legato a un più ampio negoziato su dazi e accesso al mercato, con ipotesi di riduzione al 15% delle tariffe su alcune voci. L’intesa non è ancora blindata — Tokyo ha più volte chiesto chiarezza sulle sovrapposizioni normative e su tempi di implementazione — ma rappresenta lo sfondo economico della visita e della “golden age” proclamata.
Per l’industria giapponese, il capitolo investimenti si intreccia con acquisizioni e alleanze già in corso: basti citare l’intesa che ha portato al controllo di U.S. Steel da parte di Nippon Steel con condizioni speciali concordate con la Casa Bianca. A Washington, il tema è politicamente sensibile; a Tokyo, la priorità è che le ricadute industriali restino win‑win, tra supply chain affidabili negli Stati Uniti e ritorni tecnologici a casa.
Le nuove strette cinesi sulle terre rare non sono un fulmine isolato. Pechino usa da anni il dossier materie critiche come leva nelle dispute commerciali e tecnologiche: da gallio e germanio fino ai magneti per motori elettrici e sistemi EW. L’ultima tornata di controlli amplia la lista degli elementi sensibili e, soprattutto, introduce una rete di permessi che segue non solo il materiale, ma anche la tecnologia e i macchinari impiegati, complicando le catene a monte e a valle. Per USA, Giappone e UE il rischio più concreto non è l’embargo totale, ma l’incertezza amministrativa che si traduce in ritardi, stock extra‑costi e fermate di produzione.
È in questo contesto che l’accordo Tokyo‑Washington acquista peso: fissare standard comuni, coordinare scorte strategiche, mappare i colli di bottiglia e accelerare la nascita di raffinerie alternative in Australia, Sud‑Est asiatico e Americhe può ridurre l’asimmetria nel medio termine. Non basterà, però, un solo ciclo di investimenti: serviranno 5‑7 anni di continuità per ricostruire capacità di raffinazione e magneti a prova di shock. La visita di Trump, da questo punto di vista, è il calcio d’inizio della stagione 2025‑2030.
Per l’UE, il doppio movimento visto a Tokyo — sicurezza economica sulle terre rare e rafforzamento militare — è un promemoria. Bruxelles ha già messo in cantiere una Critical Raw Materials Act e intese con America Latina e Africa, ma resta esposta alla variabile cinese e alla concorrenza di USA e Giappone sugli stessi progetti. La finestra per accordi industriali tripartiti, che uniscano domanda europea e capacità finanziarie nippo‑statunitensi, è qui e ora. Ritardi e frammentazione rischiano di alzare i costi e spingere le imprese europee verso sponde più protette.
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