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27 Ottobre 2025 - 19:42
Piano socio sanitario già in prognosi riservata. Riboldi "scappa"
“Senza rispetto per i cittadini e non dignitoso per gli operatori.” È cominciata così, con una sonora sberla, l’audizione sul nuovo piano sociosanitario del Piemonte. Una frase che, per chi era in aula, è suonata come una campana a morto per il documento partorito dall’assessore regionale alla sanità Federico Riboldi, quello che da mesi gira la Regione annunciando la rinascita della sanità pubblica piemontese e che ora si ritrova invece a difendere una creatura giudicata “non all’altezza” persino dai medici.
A pronunciarla, con tono fermo e sguardo glaciale, è stato Guido Giustetto, presidente dell’Ordine dei Medici di Torino. Non uno qualunque, ma il rappresentante di migliaia di camici bianchi che ogni giorno vedono da vicino ciò che il piano di Riboldi sembra ignorare con cura: la mancanza di personale, le liste d’attesa infinite, gli ospedali che cadono a pezzi e la medicina territoriale ridotta a un miraggio.
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Guido Giubbetto
Il confronto in commissione è degenerato presto. Giustetto parlava, snocciolava dati, elencava le falle del piano come un professore che corregge un compito mal fatto. Riboldi, invece, si agitava sulla sedia come uno studente colto in fallo, pronto a giurare che sì, aveva studiato, ma forse la domanda non era chiara.
“Il piano sociosanitario non si scrive con le audizioni ma con il lavoro degli esperti”, lo ha più o meno gelato Giustetto. E l’assessore, evidentemente colpito nel vivo, ha reagito come i migliori strateghi della politica contemporanea: si è alzato e se n’è andato.
Applausi? No, imbarazzo. Perché quando un rappresentante della sanità piemontese — che un tempo era un modello nazionale — abbandona la sala invece di rispondere nel merito, il messaggio che resta è chiaro: il re è nudo, e il piano pure.
Giustetto non si è limitato alla forma. Ha demolito il documento punto per punto: manca un piano del personale, manca una visione epidemiologica, mancano riferimenti concreti su case e ospedali di comunità, manca l’ambiente, mancano i soldi, manca praticamente tutto. Un elenco di “assenze” che somiglia più a un necrologio che a una programmazione sanitaria.
“Il piano va riscritto”, ha detto senza mezzi termini, aggiungendo che “non sarebbe dignitoso per il Consiglio approvarlo”. E non serve leggere tra le righe per capire che il messaggio è: fermatevi, prima che sia troppo tardi.
Ma nella Regione delle slide e delle conferenze stampa trionfali, dove ogni fallimento diventa “un percorso di innovazione”, ammettere un errore è fuori moda. Così, mentre i medici chiedono di “coinvolgere chi ha le competenze”, Riboldi replica che gli incontri con gli stakeholder ci sono stati. Certo, come no: incontri, audizioni, chiacchiere e passerelle. Ma di piani veri, nemmeno l’ombra.
A rincarare la dose sono arrivati anche farmacisti, infermieri, veterinari e ostetriche. Tutti concordi: il piano fa acqua da tutte le parti. Mario Giaccone, presidente dei farmacisti, ha ricordato che non c’è nemmeno un rigo dedicato alle farmacie, quelle che durante il Covid hanno fatto 4 milioni di tamponi e 400 mila vaccini.
Ivan Bufalo, a nome degli infermieri, ha detto che “manca il personale, mancano le risorse e manca perfino la logica”.
Ugo Baldi, dei veterinari, ha parlato di assenza di dati epidemiologici e perfino del tema dell’igiene urbana. E le ostetriche, giustamente, hanno rivendicato la loro professionalità, chiedendo chiarezza sui ruoli. In pratica, un coro stonato che solo Riboldi sembra sentire come musica.
E dire che questo piano avrebbe dovuto essere il vanto della Giunta: la grande riforma che, dopo trent’anni, riportava il Piemonte tra le regioni modello. Invece si è trasformato in un boomerang che torna dritto sulla scrivania dell’assessore, tra le cartelline colorate e le tabelle Excel. Perché, a quanto pare, nel suo entusiasmo Riboldi ha dimenticato un piccolo dettaglio: la sanità non si governa con le slide, ma con persone in carne e ossa.
Sulla carta, il Piano 2025-2030 doveva inaugurare una nuova era. Ospedali di comunità, medicina territoriale, prossimità, integrazione tra sanitario e sociale: parole d’oro. Nella pratica, però, resta tutto un esercizio di stile. La Regione promette un modello “più vicino al cittadino”, ma in troppe aree del Piemonte la sanità resta lontana — a volte a mezz’ora di macchina, a volte a un anno di attesa. Si parla di “nuovi percorsi di cura” mentre mancano medici di base, pediatri e infermieri. E ci si riempie la bocca con la parola “innovazione” quando molti reparti funzionano ancora con apparecchiature di vent’anni fa.
Riboldi, in compenso, non si è mai fatto mancare le interviste entusiastiche. “È un piano moderno e concreto, che mette la persona al centro”, continua a ripetere su "La Stampa" come un mantra. Peccato che la “persona al centro” sembri più una formula retorica che una realtà: perché al centro, oggi, ci sono solo le carenze strutturali, gli ospedali in difficoltà e il personale stremato. È facile parlare di “rete territoriale” quando si guarda il Piemonte da un ufficio climatizzato in via XX Settembre, più difficile se si entra in un pronto soccorso di provincia alle tre del mattino.
Giustetto, nel suo intervento, ha ricordato che “il Piemonte è stato per anni un modello nazionale di sanità pubblica”, ma che ora “questo documento non è all’altezza della nostra reputazione”. È la frase che riassume tutto: un passato glorioso, un presente disarmante e un futuro, se va avanti così, da libro dei sogni.
E mentre il presidente dell’Ordine chiede di riscrivere il piano “facendosi aiutare da chi ne ha le capacità”, in Regione si continua a parlare di “sinergie” e “cabine di regia”. L’impressione è che più la nave affondi, più si organizzino tavoli di confronto per discutere del colore delle scialuppe.
Insomma, più che un piano sociosanitario, sembra un piano di fuga: fuga dalla realtà, dalle critiche, dal confronto. E quando un assessore se ne va sbattendo la porta davanti ai medici, viene da chiedersi se il prossimo passo non sarà quello di prescrivere il silenzio a chi osa dissentire.
Ma forse è tutto calcolato. Magari il piano di Riboldi funziona davvero così: meno medici parlano, meno problemi ci sono. Peccato che, per i piemontesi, il problema resti tutto lì — vivo, reale, e purtroppo non curato.
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