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25 Ottobre 2025 - 09:59
Il fatto che tu sia disabile non ti permette di far sentire in colpa una persona sana
Viviamo in una società che pretende di essere inclusiva, ma solo se l’inclusione non disturba. Se è silenziosa, gentile, discreta. Se non mette a disagio chi la osserva da fuori. L’abilismo contemporaneo non urla: sussurra. E in quel sussurro, nella voce calma del “non farmi sentire in colpa”, si nasconde la forma più sottile di violenza morale. È qui che comincia la storia di Martina — e di tutti coloro che, ogni giorno, devono chiedere permesso per esistere.
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C’è un tratto di Dora, davanti al Canoa Club di Ivrea, dove l’acqua scorre densa e metallica e i salici piegano la testa come a chiedere scusa al fiume. È lì che Martina, 18 anni, autistica, viene a respirare quando il mondo diventa troppo rumoroso. Non è un luogo di fuga, è un rifugio. Una pausa dal caos sensoriale che la travolge ogni volta che le luci diventano troppo forti, le voci troppo alte, i pensieri troppo rapidi.
Qualche giorno prima aveva provato a dire ai suoi amici che le feste in locali pieni di luci intermittenti e musica martellante la stancavano, che non ce la faceva più a fingere normalità. Non le hanno risposto con empatia, ma con una sentenza: “Esageri. Non puoi pretendere che il mondo si adatti a te.” Poi il silenzio. Nessun messaggio, nessun invito. Come se la sincerità fosse una colpa.

Martina non ha taciuto. Li ha affrontati. Ha detto, con voce tremante, che erano fortunati a poter ridere, ballare, urlare senza paura di essere esclusi. Fortunati a non dover ogni giorno negoziare la propria presenza nel mondo. Ma le sue parole, invece di scalfire la superficie dell’indifferenza, hanno acceso il risentimento. Le hanno detto che era maleducata. Che “rovina l’atmosfera”. Poi, come sempre, il dito puntato, il verdetto: la colpa è tua. E infine il messaggio finale, quello che chiude ogni dialogo: “Chiudiamo qui. Sei tu quella che ha sbagliato.”
Ha letto quella frase per ore, poi ha guardato il fiume e ha capito che la sua rabbia non era un crollo personale, ma un atto politico. Che ogni volta che qualcuno le dice “non farmi sentire in colpa”, non sta solo difendendo se stesso: sta difendendo un ordine, una gerarchia invisibile che tiene insieme normalità e potere.
Dire a una persona con disabilità “non ti è permesso farmi sentire in colpa” è un gesto solo in apparenza neutro. In realtà, è un rovesciamento. Chi subisce la discriminazione diventa il colpevole, chi esercita il privilegio diventa vittima del disagio. È un meccanismo di autoassoluzione che scivola silenzioso nel linguaggio quotidiano: il bisogno diventa pretesa, il dolore diventa eccesso, la diversità diventa disturbo. È la forma più elegante della violenza simbolica, quella che si nasconde dietro la gentilezza, dietro la misura, dietro le buone maniere. È la mano che accarezza mentre impone silenzio. Un veleno dolce che dice: “Non turbare l’ordine della normalità.” Ma che cos’è, davvero, la normalità? E chi la decide?
L’abilismo oggi non ha bisogno di insulti. Parla con frasi educate: “Non te la prendere”, “Non devi pretendere trattamenti speciali”, “Devi capire anche gli altri.” Frasi che sembrano equilibrio, ma sono controllo. Perché in quella richiesta di comprensione c’è la pretesa che la persona disabile gestisca la fragilità emotiva dei normodotati, che non disturbi, che chieda permesso prima ancora di esistere. E se osa reagire, diventa “aggressiva”. Il potere della norma si difende così: rendendo l’empatia un obbligo unilaterale, trasformando la legittima rabbia in maleducazione. Il risultato è perfetto: l’ordine resta intatto, la coscienza resta pulita.
Il fastidio che la disabilità suscita non è biologico. È culturale. È il prodotto di secoli in cui il corpo imperfetto è stato visto come peccato, deviazione, fragilità da correggere. Come scriveva Rosemarie Garland-Thomson, la cultura costruisce la disabilità come un problema del corpo, anziché come una conseguenza dell’ambiente sociale. Per questo dire “non farmi sentire in colpa” significa, in fondo, dire “Sii disabile, ma in silenzio. Non disturbare la mia normalità.”
La società accetta la disabilità solo se non disturba. Puoi essere ispiratrice, coraggiosa, determinata — ma non arrabbiata. L’ira disabile è un tabù. Perché rivelerebbe la verità: che il potere non è neutro, che chi definisce la “normalità” lo fa per non mettersi in discussione. Molti diventano così gestori della propria identità rovinata, custodi della tranquillità altrui. È l’ennesimo paradosso: chi vive il disagio reale deve rassicurare chi ne ha solo paura.
Forse è arrivato il momento di ribaltare la prospettiva. Non è la persona disabile che “fa sentire in colpa” il sano. È il sano, o meglio, il normalizzato, che teme di confrontarsi con la propria indifferenza. La colpa non è un’accusa, è uno specchio. E riflette ciò che la società ha rimosso dal campo del possibile. Come scriveva Michel Foucault, il potere produce la realtà, produce i rituali di verità. La disabilità, allora, non è un deficit. È una lente. Una verità che mostra le crepe di una civiltà ossessionata dal corpo che obbedisce. Chi dice “non farmi sentire in colpa” non protegge se stesso: protegge il proprio privilegio fragile.
E dunque sì. Il fatto di essere disabile ti autorizza eccome a far sentire in colpa una persona — quando quella persona ti discrimina, ti impone silenzio o ti esclude. Ti autorizza a parlare, a gridare, a disturbare. Perché finché il corpo disabile dovrà chiedere permesso per esistere, non ci sarà giustizia. E se la colpa è l’unico linguaggio che il potere capisce, allora che ben venga il senso di colpa: è il primo sintomo di una coscienza che si risveglia.
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