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20 Ottobre 2025 - 21:40
Invest in Piemonte, il summit dei record (e delle parole): cinquanta multinazionali, tanti milioni e una domanda
Oltre cinquanta multinazionali riunite al trentatreesimo piano del Grattacielo della Regione, tra buffet e slide colorate, per celebrare il “Summit Invest in Piemonte”, il grande evento organizzato da Regione Piemonte, Confindustria Piemonte e Ceipiemonte. Una passerella internazionale che, almeno sulla carta, dovrebbe rappresentare il punto di svolta per una terra che vuole tornare a parlare la lingua degli investitori globali. Nella realtà, invece, è sembrata più una celebrazione di sé stessa: la Regione che applaude la Regione, Confindustria che applaude Confindustria e un pubblico selezionato che annuisce al suono di parole come “ecosistema”, “filiera”, “attrattività”, “innovazione”. Tutte parole giuste, per carità, ma ormai talmente abusate da non significare più niente.
Il presidente Alberto Cirio, nel suo intervento, ha ribadito che il Piemonte “è una delle regioni più attrattive d’Europa”, ricordando con orgoglio che il fatturato delle multinazionali è cresciuto del 44% contro il 25% della media nazionale. Numeri buoni, che però non spiegano nulla di ciò che davvero interessa ai piemontesi: quanti di quei guadagni restano qui, in stipendi, in tasse, in investimenti strutturali? E soprattutto, chi controlla che i nuovi posti di lavoro non siano solo contratti precari da vetrina, perfetti per le statistiche e inutili per le famiglie? Cirio ha citato come simbolo del “Piemonte che vince” il progetto Silicon Box, 3,2 miliardi di euro e 1.600 posti di lavoro. Tutto bellissimo. Peccato che, come spesso accade, i dettagli veri — quelli su tempi, profili professionali e garanzie — siano rimasti chiusi nei faldoni della Regione.
Il sindaco Stefano Lo Russo ha colto l’occasione per ricordare che Torino è stata inserita dal Financial Times nella top ten europea delle città più attrattive per investimenti esteri. È un bel titolo da esibire nei convegni, ma stride con la Torino dei negozi chiusi, dei cantieri infiniti e dei giovani che continuano a partire per Milano o Berlino. Attrattiva, sì, ma per chi? Per i fondi d’investimento, forse, non per i cittadini che ogni giorno devono fare i conti con un costo della vita sempre più alto e servizi pubblici sempre più deboli.
Durante il summit sono stati presentati i numeri della “grande macchina regionale dell’attrazione”: dal 2020 al 2025, la Regione ha sostenuto oltre 90 progetti per un totale di 495 milioni di euro e 850 nuovi posti di lavoro. L’assessore Andrea Tronzano ha precisato che “solo attraverso gli strumenti regionali” sono stati attivati 56 progetti con 40 milioni di euro a tasso zero e 8 milioni a fondo perduto. Una cascata di cifre, come se bastasse dire “milioni” per convincere che tutto vada bene. Ma nel frattempo le piccole e medie imprese, quelle che fanno davvero il Piemonte, continuano a faticare a ottenere un prestito o una commessa, soffocate da burocrazia, tasse e da un mercato che favorisce sempre e solo i grandi.
Sul palco, Andrea Amalberto, presidente di Confindustria Piemonte, ha messo in scena l’elogio dell’“ecosistema industriale integrato”, dove il capitale globale incontra le radici locali. Ha parlato di IA, aerospazio, logistica, energia, capitale umano, digitalizzazione. Un linguaggio impeccabile, quasi poetico, che però evita la domanda più scomoda: che fine fanno i lavoratori di Mirafiori, o le decine di stabilimenti dismessi nelle valli? L’“ecosistema” suona bene nei comunicati, ma nella realtà si traduce spesso in un’asimmetria: le multinazionali prendono, producono e — quando non conviene più — se ne vanno. A lasciare qui restano le cattedrali vuote e la nostalgia di una manifattura che un tempo dava identità.
Oggi in Piemonte operano 5.700 imprese a capitale estero, con 183 mila addetti e un valore aggiunto di 16 miliardi di euro. È un patrimonio enorme, che però non coincide con la salute economica diffusa. A gestire i rapporti con questi colossi è Ceipiemonte, la società che si occupa di attrazione investimenti, e che dichiara di avere 600 dossier aperti, per un potenziale di 9 miliardi di euro e 13 mila posti di lavoro. Il presidente Dario Peirone ha spiegato che ogni giorno il suo team “assiste dieci imprese estere”, che la pipeline cresce “di quattro nuovi casi a settimana” e che tutto ciò “dimostra l’efficacia dell’approccio integrato”. Un linguaggio da analisi di mercato, preciso e neutro. Ma nessuno, nel corso del summit, ha detto cosa succede dopo: quante di queste aziende, una volta insediate, restano davvero? Quante reinvestono? Quante producono ricchezza reale e non solo flussi finanziari?
Sul palco si sono susseguiti nomi importanti: Amazon, Hilton, MSC Technology, Bulgari, Cartier, Coca-Cola, Luxoft, Procos. Tutte multinazionali che hanno, a vario titolo, toccato il Piemonte. Alcune hanno aperto centri di ricerca, altre poli logistici, altre ancora stabilimenti temporanei. Tutte, però, con un tratto comune: una presenza spesso intermittente, regolata dalle logiche globali più che da un legame con il territorio. E mentre i vertici di Regione e Confindustria parlano di “modello Piemonte”, i lavoratori delle periferie industriali si chiedono dov’è questo modello nella loro vita quotidiana.
I rapporti Ambrosetti ed Ernst & Young confermano il Piemonte come una delle regioni più attrattive d’Italia per gli investimenti esteri. Ma la parola “attrattiva” non sempre coincide con “giustizia”, “benessere” o “lavoro stabile”. In molti casi significa solo che il territorio è conveniente: manodopera qualificata, costi contenuti, istituzioni accomodanti. Un equilibrio fragile, che regge finché l’economia globale non decide di spostarsi altrove.
Alla fine del summit, tra gli applausi e i selfie istituzionali, restano i dati e le parole. Tanti milioni, tanti posti di lavoro promessi, tanti sorrisi nelle foto ufficiali. Ma il vero termometro dell’attrattività non si misura nei convegni né nei dossier: si misura nelle fabbriche che riaprono, nei giovani che restano, nei centri storici che non chiudono serrande. Tutto il resto è storytelling economico. E a furia di raccontarsi come “la regione più attrattiva d’Europa”, il rischio è di dimenticare che un territorio è attrattivo solo se la sua gente ci vive bene.
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