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18 Ottobre 2025 - 15:10
Chiara Appendino
È arrivata senza fronzoli, dentro un consiglio nazionale via Zoom: Chiara Appendino ha lasciato la vicepresidenza del Movimento 5 Stelle. Una decisione che chiude settimane di tensioni e che, per chi segue la politica da vicino, era nell’aria. L’ex sindaca di Torino, oggi deputata e figura di punta dell’ala nord del Movimento, ha comunicato la sua scelta in diretta ai colleghi collegati, sancendo di fatto una rottura che covava da tempo.
Non è una sorpresa. Già dopo le ultime elezioni regionali, con risultati a dir poco disastrosi per i 5 Stelle – nelle Marche, in Calabria e in Toscana – Appendino aveva espresso pubblicamente dubbi sulla direzione del partito e sulla linea di Giuseppe Conte, accusato di aver piegato il Movimento a un rapporto di subalternità verso il Partito Democratico. “C’è un problema politico, non di comunicazione”, aveva detto. Tradotto: non è solo una questione di immagine o di slogan, ma di identità. Le sue critiche al “campo largo” con il PD non sono mai state isolate, ma nemmeno davvero sostenute dai vertici: poche risposte, qualche parola di circostanza, e il gelo dei dirigenti più allineati con Conte.
Da lì alla decisione di lasciare la vicepresidenza, il passo è stato breve. Una mossa che molti nel Movimento leggono come un atto di coerenza, ma anche come un segnale d’allarme: Appendino rappresentava una parte del gruppo dirigente che chiedeva di tornare alle origini, di non annacquare il messaggio grillino dentro una sinistra istituzionale che gli elettori percepiscono sempre più distante. Le sue dimissioni, quindi, non sono un episodio personale: sono il sintomo di un disagio diffuso.
La tempistica, però, non è casuale. Conte si prepara alla rielezione come presidente del Movimento, unica candidatura in corsa, e la votazione avverrà già nel prossimo weekend. È la cosiddetta “contromossa”: il voto non serve solo a blindare il suo secondo mandato, ma anche ad azzerare tutti gli organi dirigenziali, compreso quello che Appendino ha appena lasciato. Così, tecnicamente, la casella resterà vuota solo per pochi giorni. Politicamente, però, la frattura resta: a livello operativo tutto verrà ricomposto in tempi rapidi, ma sul piano politico si apre una faglia che nessun congresso digitale potrà suturare.
La mossa di Conte è chiara: ricompattare la base, evitare scossoni, presentarsi come il leader unico e indiscusso di un Movimento che non ha più bisogno di voci alternative. Ma il rischio è quello di un partito sempre più centralizzato, dove il dissenso viene silenziato con la velocità di un click. Appendino, con il suo gesto, ha voluto rendere visibile proprio questo: la difficoltà di discutere davvero, di confrontarsi sulla linea, di accettare che le alleanze non siano una verità ma una scelta politica da rinegoziare di volta in volta.
E ora? Gli scenari possibili sono diversi. Il primo è quello del ricompattamento controllato: Conte si fa rieleggere, nomina una squadra a sua immagine e somiglianza, concede qualche segnale di apertura sui temi identitari – reddito di cittadinanza, ambiente, sanità pubblica – e tenta di tenere insieme le anime del Movimento. È lo scenario più probabile nel breve periodo, ma anche il più fragile. Il secondo è quello della centralizzazione totale, con la rielezione che diventa un plebiscito e il messaggio chiaro: o si sta con questa linea, o si resta ai margini. In questo caso, il passo indietro di Appendino resterebbe isolato, ma segnerebbe la nascita di un malcontento carsico, pronto a riemergere al primo voto utile.
Il terzo scenario, più lento ma più insidioso, è quello della diaspora silenziosa: parlamentari, amministratori locali e attivisti che smettono di riconoscersi nel Movimento e scelgono l’astensione o l’impegno civico fuori dal perimetro pentastellato. È un rischio reale, specie nei territori dove il M5S aveva costruito la sua forza sulla disillusione, non sulla fedeltà ideologica. Infine, esiste anche un quarto scenario, più coraggioso ma meno probabile: quello del ritorno all’autonomia competitiva, un Movimento che corre da solo dove può e tratta alleanze solo sui contenuti, non sugli schieramenti. È, paradossalmente, la strada che Appendino avrebbe voluto: tornare a essere “alternativi” davvero, non complementari.
Intanto, lei resta in Parlamento, forte di un consenso personale che a Torino non è mai evaporato. E già qualcuno sussurra che potrebbe tornare in campo in chiave amministrativa, magari in vista del prossimo ciclo elettorale. Nessuna conferma, ma il sospetto è che questa mossa non sia solo una rottura, ma anche una liberazione politica. Appendino lascia la vicepresidenza, ma non la scena.
Insomma, la sua uscita non è una parentesi burocratica nel calendario del Movimento, ma un segnale di crepa strutturale. I 5 Stelle possono anche sostituirla in fretta, ma non potranno evitare la domanda che la sua scelta riporta in primo piano: chi sono oggi, e perché qualcuno dovrebbe ancora votarli. Conte potrà anche vincere il suo secondo mandato, ma se non darà una risposta credibile a questa domanda, rischia di essere un leader senza popolo, al comando di un partito che parla di partecipazione, ma che non ascolta più.
È sempre un buon momento, in politica, per dimettersi via Zoom. Così si evitano gli abbracci, le smorfie, le facce finte e soprattutto i microfoni aperti. E infatti Chiara Appendino, da brava ex sindaca torinese – dove l’efficienza è una religione – ha scelto la modalità “riunione online”: un clic, una connessione stabile e, oplà, la vicepresidenza del Movimento 5 Stelle è sparita come una chat archiviata.
Non che fosse un segreto: da giorni si sentiva odore di addio. Il Movimento è quello che è – un partito che si definisce “in movimento” solo perché nessuno sa dove stia andando – e Appendino ha deciso che, se proprio deve guardare il disastro, meglio farlo da fuori. Dopotutto, l’ultima volta che i 5 Stelle hanno festeggiato un successo elettorale, Luigi Di Maio portava ancora il ciuffo ribelle e Conte faceva il premier con l’aria di chi non capiva bene se stesse governando o mediando una lite condominiale.
Le ragioni dell’addio? Sempre le stesse: il campo largo che non è più un campo ma un parcheggio multipiano; il PD che detta la linea e i 5 Stelle che fanno finta di essere d’accordo; le regionali dove si perde ma si commenta con entusiasmo, tipo “abbiamo tenuto”. Appendino, che di tenere ne ha abbastanza, ha deciso che non si può più fare finta di nulla. E allora via, un colpo di teatro a distanza, giusto per ricordare che anche nel Movimento del “uno vale uno” qualcuno ancora prova a valere qualcosa.
Intanto Giuseppe Conte, l’uomo che riesce a dire “non commento” in dodici versioni diverse, si prepara al secondo mandato da leader. Si voterà online, naturalmente, e vincerà lui, naturalmente. L’azzeramento degli organi dirigenti servirà a rimpiazzare i vice, i coordinatori e magari anche qualche dubbio esistenziale. Tutto risolto: un clic, una password, un nuovo organigramma. Il grillismo 4.0.
Ma il bello è che Appendino non ha nemmeno bisogno di alzare la voce. Il suo silenzio pesa più di cento post indignati su Facebook. È l’immagine di un Movimento che, da forza rivoluzionaria, è diventato un partito che si autoanalizza come un adolescente allo specchio. Dove un tempo c’erano slogan tipo onestà, onestà, ora c’è il più sobrio riconsideriamo la nostra collocazione strategica nel sistema delle alleanze progressiste. Non proprio una canzone da piazza.
E quindi sì, Appendino se ne va, e Conte resta. Lei con un gesto che sa di dignità, lui con una rielezione che sa di autoprotezione. Entrambi coerenti con sé stessi: lei piemontese, concreta e stanca; lui giurista, impassibile e incrollabile come un algoritmo. Il Movimento 5 Stelle, invece, continua la sua metamorfosi: da rivoluzione digitale a malinconica riunione su Zoom, con l’audio che gracchia, la webcam spenta e il dubbio che, in fondo, nessuno stia più ascoltando.
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