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15 Ottobre 2025 - 23:04
Foto archivio
C’è una panchina, ai giardini di Piazza Freguglia, che da questa mattina ha smesso di essere solo una panchina. È diventata un giaciglio, un rifugio di fortuna per una giovane donna che dorme lì, sotto un cumulo di coperte. Una figura silenziosa, invisibile a chi passa troppo in fretta, ma impossibile da non notare per chi ha ancora la capacità di guardare davvero.
Massimiliano De Stefano, consigliere comunale, l’ha vista. Si è fermato, le ha parlato, ha ascoltato il silenzio imbarazzato e la vergogna che traspariva dai suoi occhi spenti. E poi ha scritto: «È inaccettabile assistere all'indifferenza di fronte a queste fragilità, dove una donna si ritrova a dormire su una panchina».
Dietro quelle poche parole c’è tutta la fatica di una città che non sa più dove mettere il dolore. C’è un sistema di assistenza che non arriva, una Caritas che non basta, un letto che non c’è. Quando De Stefano le ha suggerito di recarsi lì, per un pasto caldo e un riparo, lei ha scosso la testa. Una negazione che dice più di mille discorsi: forse per paura, forse per sfiducia, forse per rassegnazione.
E allora resta lì, tra il brusio delle auto, il rumore dei passi e l’indifferenza collettiva. «Non possiamo risolvere i problemi di tutti — scrive De Stefano — ma è giusto sentirne il peso, soprattutto se di fronte a casi simili prevale lo sguardo indifferente di tutti noi».
Parole che dovrebbero scuoterci. La panchina non solo metafora di povertà, ma di assenza. L’assenza delle Istituzioni, della comunità, di un sistema che non riesce a tendere la mano quando serve.
Morale? Ci vorrebbero gli assistenti sociali, ma anche loro fanno quel che possono. E a volte, pur di non lasciare nessuno in mezzo alla strada, arrivano a consigliare come letto proprio una panchina. A volte quella di fronte alla caserma dei Carabinieri, dove – paradossalmente – qualcuno, tra una denuncia e una chiamata di emergenza, è riuscito a fare il miracolo di trovare un letto vero.
Poveri, diseredati, disadattati, qualche volta anche fuori di testa. Nei giorni di mercato si aggirano tra i banchi. All’apparenza normalissimi clienti, e forse, fino a non molti anni fa, lo erano davvero. Guardano la frutta, la verdura, il pesce, la carne. Sembrano scegliere cosa comprare. Poi, con discrezione, si avvicinano alle buste gialle degli scarti. Uno sguardo rapido, un gesto appena accennato, e via: infilano la mano nel sacchetto per recuperare il “pezzo buono”.
Questo nelle migliori delle ipotesi. Perché troppo spesso la “spesa” si fa direttamente nei cassonetti dell’immondizia. Si cerca di qua, si sposta di là. Una prugna, un cavolfiore, una banana tutta marrone. Una mela ammaccata, qualche foglia di lattuga rinsecchita, il gambo di un carciofo. È il loro supermercato, la loro mensa, la loro vita. Uomini e donne ai margini della società.
In America li chiamano invisibili e ci hanno girato un mucchio di film, anche uno con Richard Gere. Si piange, ci si commuove, si esce dal cinema con il nodo in gola. Poi tutto finisce lì, dentro due ore di visione. Qui da noi, invece, li chiamavamo senzatetto. Poi, qualcuno, per addolcire la realtà, ha scelto di ribattezzarli clochard, come se bastasse un tocco di francesismo per rendere più poetica la miseria. Agli ultimi posti di una scala sociale che non ha pietà. Bisognerebbe invece chiamarli Barboni
Barboni, sì. Una parola che fa male anche solo a pronunciarla, ma che racconta la verità. Sono tanti, sempre di più, anche a Ivrea. Ironia della sorte: una città divenuta Patrimonio dell’Umanità, più per lo spirito olivettiano del buon vivere che per i suoi palazzi chiusi e inaccessibili di via Jervis.
E si può continuare a far finta di niente, a considerare il problema un “non problema”, o un problema di altri. Ma basta aprire Facebook per accorgersi che ogni tanto qualcuno – come De Stefano – rompe il silenzio. Forse perché un post, oggi, vale più di mille discussioni sul senso della povertà.
Dei barboni, però, santo cielo, non c’è traccia nei programmi elettorali, nei bilanci di previsione e nei DUP. Men che meno in quello del sindaco Matteo Chiantore. Eppure vivono qui, a pochi metri dalle vetrine dei negozi, dalle scuole, dalle panchine dove ci sediamo la domenica.
E allora sì, ci si chiede cosa possa fare davvero un’amministrazione comunale. Cosa possano fare i servizi sociali, oltre alle relazioni e ai protocolli. Forse possono tornare per strada, tra la gente, a guardare in faccia la realtà. Possono creare reti più forti con chi, da anni, si occupa di accogliere. Possono aprire luoghi dove dormire, non solo per una notte...
Perché in fondo, una città non si misura dai suoi palazzi né dai suoi festival. Si misura da come tratta chi non ha nulla. E in quella panchina, sotto quel mucchio di coperte, c’è tutto il fallimento – ma anche la possibilità – di un’intera comunità.
E allora forse la vera domanda non è più chi è quella donna che dorme su una panchina, ma chi siamo noi, quelli che passano e non la vedono.
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