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Esteri
14 Ottobre 2025 - 21:38
C’è una fotografa. Si chiama Barbara Debeuckelaere, è belga, e ha deciso di guardare Hebron non attraverso l’obiettivo della potenza o della propaganda, ma con quello più fragile, più umano, più vero: quello delle madri. Non è andata a raccontare il dolore con la distanza fredda del reportage, ma ha scelto di restituire lo sguardo. Di ridare voce a chi da troppo tempo è osservato, schedato, controllato. Ha messo nelle mani delle donne palestinesi di Tel Rumeida, un quartiere incastonato nel cuore ferito di Hebron, vecchie fotocamere analogiche: strumenti semplici, quasi anacronistici, in un luogo dove ogni movimento è già tracciato da sofisticati sistemi di sorveglianza israeliani. Le ha invitate a raccontarsi da sole, a fotografare la loro quotidianità, i figli, le case, la paura e la resistenza.
Hebron, nel sud della Cisgiordania, è una città spaccata in due. L’80% del suo territorio è sotto controllo palestinese, ma quel 20% restante – la famigerata zona H2 – è una gabbia tecnologica a cielo aperto. Qui vivono 40.000 palestinesi e 800 coloni israeliani, separati da cancelli, checkpoint, telecamere, armi. Un equilibrio impossibile, mantenuto solo dalla forza militare e da un sistema di sorveglianza che non lascia respiro. Ogni ingresso, ogni volto, ogni spostamento è tracciato da telecamere e scanner biometrici. Persino un bambino che gioca in strada può essere riconosciuto da un algoritmo.
La fotografia, in un contesto simile, diventa un atto di libertà. È questo che ha capito Barbara. Consegnando una macchina fotografica a una madre palestinese, ha ribaltato il paradigma del controllo: da oggetto osservato a soggetto osservante. Quelle immagini in bianco e nero, imperfette, tremanti, scattate in condizioni precarie, raccontano un mondo che le notizie e i rapporti ufficiali non sanno o non vogliono mostrare. Mani che impastano pane mentre sullo sfondo si intravede una torretta militare. Bambini che dormono mentre il muro getta la sua ombra sul cortile. Sguardi di donne che sorridono nonostante tutto.
Nel quartiere di Tel Rumeida, come nel resto di Hebron, la vita è scandita da barriere. Ci sono strade dove i palestinesi non possono più camminare, come Shuhada Street, un tempo arteria vitale della città, oggi deserta, murata, spettrale. Chi ci vive la chiama “la strada fantasma”.
E mentre gli israeliani la percorrono liberamente, i palestinesi devono girare intorno, superare controlli, attraversare varchi metallici e tornelli elettronici. È la geografia dell’apartheid, tracciata non solo da confini fisici, ma anche digitali: il sistema Red Wolf, denunciato da Amnesty International, è un software di riconoscimento facciale che scandaglia i volti dei palestinesi per catalogarli, identificarli, limitarne i movimenti.
In questa realtà di paura e di costrizione, il gesto di Barbara Debeuckelaere assume una potenza poetica e politica insieme. Restituire un’immagine, un frammento di sé, è come reclamare il diritto a esistere. Le donne che hanno partecipato al progetto non sono più vittime mute: diventano narratrici, testimoni, artiste. La loro quotidianità – fatta di piccole resistenze, di gesti domestici, di silenzi e di fede – diventa documento, prova, racconto collettivo. Ogni fotografia è un atto di disobbedienza, un modo di dire: “Io sono qui. Io vedo. Io racconto.”
Ma Hebron non è solo una città divisa: è un simbolo. È il luogo dove la tecnologia e la militarizzazione si fondono fino a controllare la vita stessa. Dove la parola “sicurezza” diventa un pretesto per cancellare libertà e dignità. Nei vicoli della città vecchia, i bambini crescono imparando prima il rumore dei droni che il suono del vento. Le madri raccontano di notti insonni, di raid improvvisi, di urla e porte sfondate. Ci sono ragazzini che non riescono più a dormire, che saltano la scuola per paura dei soldati. Eppure, in mezzo a tutto questo, ci sono anche risate, sogni, desideri. Perché la vita, a Hebron, non si arrende mai.
Barbara Debeuckelaere lo sa. E per questo ha scelto l’analogico, la lentezza, l’attesa. In un mondo dove ogni immagine è immediata e manipolabile, lei ha voluto restituire il valore del tempo e della verità. I negativi che le donne di Hebron sviluppano raccontano di un popolo che resiste, che continua a costruire memoria nonostante la cancellazione sistematica. È un atto di fiducia nell’essere umano, nel potere dello sguardo, nella forza silenziosa delle madri.
Il suo progetto, “OM / Mother”, è diventato un libro e una mostra itinerante. Ma più di ogni riconoscimento artistico, resta un gesto politico di solidarietà e di ascolto. Niente filtri, niente mediazioni. Solo immagini che parlano da sole, in un luogo dove la parola è troppo spesso negata.
Hebron, così, si rivela per quello che è: un microcosmo del conflitto israelo-palestinese, un laboratorio crudele di sorveglianza e segregazione, ma anche un luogo dove la speranza continua a respirare. Perché, come scriveva una delle donne coinvolte nel progetto, “finché posso fotografare mio figlio che dorme, nessuno potrà dire che la mia vita non esiste.”
E forse è proprio questo il messaggio più potente di Barbara Debeuckelaere: che la fotografia, in certi luoghi, non è arte. È resistenza. È identità. È la voce di chi, nel silenzio del mondo, continua a dire: “Io ci sono.”
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