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L'Unione fa la forza
11 Ottobre 2025 - 18:56
Tony Blair
Se la società civile ha saputo rialzarsi, allora la speranza è più viva che mai. Lo sanno bene i gazawi, che oggi festeggiano la tregua e ci dicono anche di non spegnere i riflettori su quel pezzo di mondo, perché la storia non è iniziata il 7 ottobre come non è ancora finita oggi con lo pseudo piano di pace di Trump e Blair.
Tutti, e dico proprio tutti, siamo felici che finalmente si sia arrivati a una tregua, perché di questo si tratta. Accendi la TV, i TG di tutte le reti esultano: il piano di pace! Ieri sera un direttore — per fare nome e cognome, Enrico Mentana— ha definito “transumanza” il rientro di migliaia di Palestinesi a Gaza. Transumanza è la migrazione del bestiame da un posto all’altro per garantirsi il cibo.
Ma mentre a Gaza si festeggia, in Cisgiordania la parola pace non è considerata. Lo stesso giorno in cui a Gaza si festeggia, compaiono cronache sulla vendetta dei coloni: agguati nelle campagne, incursioni nei villaggi, ulivi bruciati. L’Idf arretra a tratti su Gaza, ma fuori campo la pressione non si arresta: pattuglie, posti di blocco, comunità esposte a una frizione quotidiana. Un’altra mappa. Un altro tempo.
Insomma, la tregua sembra progettata per spegnere l’incendio dove le telecamere sono fisse, lasciando in ombra le braci che covano in Cisgiordania.
Quella che chiamano Pace in realtà non è altro che un grande accordo d’affari. L’idea contenuta nel piano di Donald Trump prevede una cabina di regia internazionale che, guarda caso, sarebbe presieduta dal magnate-presidente e da Tony Blair, già premier britannico tutt’altro che benvoluto nell’area mediorientale. Si aggiungerebbero poi rappresentanti dei paesi arabi benvoluti nel contesto israeliano, ma un vero protagonismo del popolo palestinese non è previsto attraverso suoi rappresentanti riconosciuti in quanto tali.
C’è un nome che pesa — e molto — e che manca nel cosiddetto piano di pace: Marwan Barghouti. “Al momento non farà parte di questo rilascio”, comunica l’ufficio del premier israeliano. Il profilo politico più popolare tra i palestinesi rimane fuori dallo scambio.
Se l’obiettivo del piano fosse davvero la Pace, allora è lui che dovrebbe sedere in quella cabina di regia: dovrebbe, in quanto simbolo della resistenza vera al sionismo, al colonialismo dello Stato ebraico, alla massima repressione carceraria. Lo chiamano il “Mandela della Palestina” perché ha passato nelle prigioni di Israele ventitré anni. Marwan Barghouti non è un leader di Hamas: è vicino ad Al-Fatah e ha diretto una lotta resistenziale nella prima e nella seconda Intifada, operando niente meno e niente più di come appunto Nelson Mandela operava nel Sudafrica dell’apartheid.
Barghouti non è solo un prigioniero da liberare, è il perno possibile di una rappresentanza. La sua esclusione indica la scelta di una controparte senza cardine: amministrazioni locali a Gaza e un’Autorità in Cisgiordania logorata; leadership frammentate e una società civile stremata. Con Barghouti fuori, i palestinesi restano un soggetto politico senza voce piena. Con Barghouti dentro, la tregua costringerebbe a parlare di politica, non solo di sicurezza.
Israele lo ha imprigionato condannandolo a cinque ergastoli. Nella società palestinese è considerato come colui che è rimasto al di fuori della corruzione che ha dilagato nell’ANP; un esponente di spicco che non ha ceduto a compromessi e che è rimasto fedele ai suoi princìpi giovanili, quando, appena quindicenne, venne arrestato per essersi unito a Fatah, che era allora considerata illegale dallo Stato ebraico. Nessuno nega, in Cisgiordania ma nemmeno a Gaza, che se si tenessero delle elezioni presidenziali, Barghouti sarebbe eletto come capo di Stato (di uno Stato che ancora non c’è…) con una percentuale certamente vicina al plebiscito.
La Palestina che voleva e che vuole Barghouti è uno Stato laico, plurale, democratico, fortemente rinnovato nella sua classe dirigente. Un progetto di rinnovamento anche sociale e culturale, che faccia della nuova repubblica un esempio per tutto il Medio Oriente. Se intorno a questo progetto si riuscisse a federare la stragrande maggioranza delle forze politiche palestinesi e, quindi, del popolo, si porrebbero le basi per un’altra idea di convivenza nella regione e per differenti rapporti internazionali.
Di sicuro il prigioniero delle carceri israeliane non ama la mitizzazione che gli è stata costruita intorno e cucita addosso. Ma era inevitabile. Come è accaduto per Mandela.
Marwan Barghouti
Questa pace, chiamata tale dalle cancellerie, somiglia a una tregua amministrata: descrive un campo sotto tutela, non la fine dell’occupazione. Si annuncia un ritiro parziale, con valichi ancora controllati. L’Europa si sistema in cabina di regia. Trump rivendica la scena. Barghouti resta fuori.
Un accordo degno di questo nome dovrebbe smantellare gli insediamenti e restituire sovranità. Dovrebbe inoltre liberare i prigionieri politici e aprire i valichi sotto autorità palestinese.
Ci dovrebbe essere scritto nero su bianco sia la data esatta della fine dell’occupazione che quella in cui i tribunali internazionali chiameranno a rispondere coloro che hanno commesso i crimini oramai documentati e il genocidio.Senza questi passaggi la parola “pace” salva vite nell’immediato, però ne lascia intatta la causa.
Chi ha perso la casa chiede un futuro: una tenda non basta. Chi ha perso un figlio pretende giustizia: il silenzio è un insulto. La gioia di chi oggi respira va protetta. Il compito è darle durata. Questa durata la garantisce il diritto, non una politica coloniale.
La Storia sarebbe giusta se vedesse Netanyahu alla sbarra e Barghouti alla presidenza del nuovo Stato di Palestina.Per ora è solo un sogno. Per renderlo realtà c’è ancora tanto da fare, tanto su cui impegnarsi e lottare. A cominciare dalla critica al finto piano di pace di Trump. Come hanno scritto i giovani che hanno invaso le piazze e le vie delle città in queste settimane: non abbassiamo lo sguardo.
Come tutto non è iniziato il 7 ottobre – tutto non finisce oggi con una falsa Pace.
La lotta deve continuare per una Palestina libera che diventi Stato indipendente.
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