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Iran: il Paese che obbliga a cambiare sesso per legge

Un sistema che guadagna milioni attirando pazienti stranieri, ma che nasconde una realtà di coercizioni, discriminazioni e sofferenze personali

Iran: il Paese che obbliga a cambiare sesso per legge

Iran: il Paese che obbliga a cambiare sesso per legge

Un giorno qualunque in una clinica di Teheran: una giovane persona trans si sottopone a un intervento chirurgico di conferma di genere, circondata da personale medico efficiente e da un’organizzazione che fa del turismo medico un business in forte crescita. Nel frattempo, pochi metri più in là, un'altra persona trans viene minacciata di arresto perché non vuole sottoporsi all’operazione obbligatoria imposta dal regime. Questo contrasto estremo racconta una realtà poco conosciuta e ambigua: l’Iran è oggi uno dei paesi leader mondiali nelle operazioni di cambio di sesso, con oltre 4.000 interventi all’anno, eppure questa “apertura” sanitaria nasconde un sistema rigido che costringe gran parte della comunità LGBTQ+ a scelte estreme, tra paura, violenza e controllo statale.

Iran, la “sorprendente” leadership nella chirurgia transgender

Da oltre quarant’anni, l’Iran pratica un numero di operazioni di gender transition superiore a molti paesi occidentali messi insieme. Il motivo va ricercato in un decreto storico, una fatwa emessa negli anni '80 da Ruhollah Khomeini, fondatore della Repubblica Islamica, che per la prima volta nel mondo musulmano ha riconosciuto legalmente la possibilità di cambiare sesso. Secondo questo decreto, solo chi accetta di sottoporsi a questi interventi può ottenere il riconoscimento ufficiale del proprio genere e dunque evitare punizioni severe, incluse la detenzione o la pena di morte. Il fenomeno, però, non nasce da un progressismo sui diritti, bensì da un modo di sopprimere l’identità di genere e l’orientamento sessuale al di fuori di un rigido binarismo imposto dal regime.

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Lungi dall’essere una conquista di libertà, la chirurgia diventa in molti casi uno strumento di coercizione: transessuali che resistono alla chirurgia sono perseguitati, umiliati o minacciati. Il regime impone una rigidità assoluta: o ti “normalizzi” passando attraverso l’operazione o sei escluso dalla società e sottoposto a violenze. Come racconta la studiosa di gender Zara Saeidzadeh, chi non si conforma viene stigmatizzato e messo a rischio di vita. Questo spiega perché l’Iran, paese notoriamente repressivo verso i diritti umani e la libertà individuale, abbia oggi un boom di operazioni chirurgiche transgender.

Turismo medico e affare da miliardi

In un contesto economico attraversato da sanzioni e crisi, il governo iraniano ha scelto di investire nel settore del turismo medico, puntando non solo a pazienti locali ma soprattutto a stranieri in cerca di chirurgie di conferma di genere a costi contenuti. Le agenzie turistiche iraniane pubblicizzano pacchetti completi in inglese che includono non solo gli interventi ma anche soggiorni in hotel di lusso e visite turistiche. L’obiettivo è chiaro: incassare oltre 7 miliardi di dollari all’anno, una cifra sette volte superiore all’anno precedente, secondo i media statali.

Non si tratta solo di chirurgie transgender: rinoplastiche, trapianti di capelli e altri interventi estetici portano un flusso costante di clienti stranieri. Ma la chirurgia transgender riveste un ruolo peculiare perché l’offerta iraniana è una delle poche nel mondo musulmano, accompagnata da un’assistenza finanziaria statale per gli iraniani.

Un cammino verso il riconoscimento legale, ma a quale costo?

Il percorso per ottenere l’intervento è lungo, invasivo e spesso degradante. L’iter richiede mesi o anni di controlli, tra cui test di verginità, visite domiciliari, colloqui psicologici obbligatori e valutazioni da parte dei tribunali e dell'Organizzazione Medicina Legale iraniana che esamina ogni caso con criteri severi. Solo dopo questa serie di "filtraggi", distinti tra omosessualità (considerata deviata) e transessualità (considerata "curabile" con chirurgia), arriva il benestare legale.

Il dopo-operazione comporta ulteriori controlli, compresa la sterilizzazione obbligatoria, e solo allora il nuovo genere è riconosciuto legalmente, con documentazione ufficiale aggiornata. Tuttavia la qualità degli interventi e delle cure post-operatorie è spesso insufficiente: la mancanza di standard sanitari adeguati e la scarsa preparazione degli operatori medici portano a complicazioni gravi, che in molti casi compromettono la salute a lungo termine dei pazienti.

La condizione sociale e legale delle persone transgender

Nonostante l’apparente apertura per una “risoluzione” chirurgica, i diritti delle persone transgender in Iran restano estremamente limitati. Non ci sono leggi antidiscriminatorie né riconoscimento di generi non binari. Le restrizioni e le violenze della polizia sono ancora diffuse. Nel 2025, per esempio, il consiglio comunale di Teheran ha istituito vere e proprie “zone vietate” per le persone transgender.

La comunità LGBTQ+, in particolare lesbiche, gay e bisessuali, è soggetta a pene draconiane, fino alla pena di morte. La chirurgia di conferma di genere rischia così di diventare un “salvataggio” forzato, che obbliga chi è fuori dagli stereotipi sessuali a passare per un intervento invasivo per evitare la repressione violenta.

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Storie di vita e resistenza: umanità dietro il tabù

Dietro i numeri e le leggi c’è una realtà umana fatta di coraggio e dolore. Molte persone transgender raccontano di essersi sentite obbligate a cambiare a causa della pressione sociale e statale, più che da una propria consapevolezza di genere. Altre si sono viste costrette a vivere nell’ombra o a fuggire dal paese per poter vivere liberamente.

Una storia emblematica è quella di una donna transgender che negli anni '80 si vestì da uomo per incontrare lo stesso Khomeini e ottenere la fatwa favorevole. Fu picchiata ma riuscì ad avere un incontro privato con il leader supremo, che emise il decreto che ha cambiato la vita di molti, seppure in modo controverso.

Nonostante tutto, cresce anche una nuova generazione di attivisti e studiosi, come la già citata Zara Saeidzadeh, che mettono in discussione l’approccio medico-legale e chiedono il riconoscimento dei diritti basati sull’autodeterminazione e non sulla chirurgia forzata. Nel frattempo, in strada e sui social, nuove forme di protesta stanno emergendo, soprattutto dalle donne e dalla comunità transgender che rivendicano dignità e libertà in un paese che ancora fatica a garantire entrambe.

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