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10 Ottobre 2025 - 19:25
Tajani
Un bambino palestinese, in braccio a un ragazzo sui roller, sventola due bandiere: quella palestinese e il Tricolore italiano. Una scena semplice, quasi poetica. Peccato che, come spesso accade nella tragicommedia della politica italiana, sia bastato un tweet maldestro di Antonio Tajani per trasformare quel gesto simbolico in un boomerang diplomatico.
Il ministro degli Esteri, evidentemente in vena di post patriottici, ha scritto: “Il Tricolore sventola anche a Gaza. Segno di riconoscenza e gratitudine nei confronti di quello che ha fatto e farà l’Italia. Viva la pace!” — allegando proprio quel video.
Un video che, ironia della sorte, era stato pubblicato il giorno prima da un account pro-Palestina per ringraziare non certo il governo Meloni, ma i cittadini italiani scesi in piazza contro il genocidio a Gaza.
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Sì, perché mentre Tajani twittava fiero della presunta riconoscenza palestinese verso il governo italiano, dietro quelle immagini risuonava una canzone della Banda Bassotti, storico gruppo antifascista. Non proprio l’inno ufficiale della Farnesina. E quel bambino non stava ringraziando nessuno dei palazzi romani: stava ringraziando la gente, quella che marcia, quella che urla “Stop al massacro”, quella che non sopporta più la retorica diplomatica dei “cessate il fuoco condizionati”.
E così, nel giro di poche ore, il ministro si è ritrovato protagonista dell’ennesimo “incidente digitale” di Stato. Il tweet, anziché un gesto di pace, è diventato solo imbarazzo. Le reazioni? Migliaia di commenti sotto il post, tra ironie, accuse e sarcasmi. Alcuni scrivevano: “Ministro, ma almeno guardi i video prima di twittare”. Altri, più diretti: “La Banda Bassotti ringrazia per la promozione gratuita”. Ma il tweet è rimasto lì, orgogliosamente inamovibile. D’altronde Tajani è convinto che la diplomazia sia fatta anche di perseveranza... o forse di testardaggine.
Quando gli è stato fatto notare che il filmato non celebrava affatto il governo italiano, Tajani ha tentato di minimizzare, con la solita calma da burocrate europeo: “Il merito dell’accordo di pace è di chi ha voluto raggiungerlo: americani, qatarini, egiziani, turchi...”. Tradotto: la gente può pure scendere in piazza, ma la pace la fanno i grandi. I piccoli, cioè i cittadini, meglio che restino a guardare. Anzi, se protestano troppo, “violano le regole”, ha aggiunto. Non sia mai che la democrazia disturbi la diplomazia.
Il cortocircuito è totale: da un lato la politica, che crede di parlare di pace con un post su X (ex Twitter), dall’altro un popolo che urla la pace nelle strade, tra bandiere e striscioni. Due mondi che non si ascoltano. Uno sventola il Tricolore da un ministero climatizzato, l’altro lo sventola nelle piazze, accanto a quello palestinese, sotto la pioggia.
E così, la gaffe di Antonio Tajani diventa una metafora perfetta del tempo che viviamo: la distanza abissale tra chi governa e chi vive la realtà. Un video, un tweet, un fraintendimento, e tutta la macchina comunicativa di Palazzo Chigi si ritrova con la retorica ribaltata. Mentre il ministro si immaginava ambasciatore della pace, il web lo trasformava nel protagonista inconsapevole di una lezione di educazione civica: prima di parlare a nome del popolo, ascoltalo.
Cosa resta, dunque, di questa vicenda? Un post su Instagram sbagliato, certo. Ma anche l’immagine di un’Italia che non sa più leggere i simboli. Perché dietro quel bambino con due bandiere non c’era l’elogio del potere, ma la richiesta di umanità. E Tajani, invece di coglierla, l’ha trasformata nell’ennesimo spot di sé stesso.
Insomma, se la diplomazia fosse una materia scolastica, dopo questo episodio Tajani meriterebbe almeno un rimando a settembre. Magari con un compito: guardare i video fino in fondo prima di commentarli. Perché la pace non si fa a colpi di post. E nemmeno di gaffe.
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