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“La verità non può essere uccisa”, 19 anni senza Anna Politkovskaja

Uccisa nell’ascensore di casa il 7 ottobre 2006, la cronista che raccontò la Cecenia con voce scomoda e coraggio estremo continua a vivere nelle parole che il potere non è riuscito a seppellire

“La verità non può essere uccisa”, 19 anni senza Anna Politkovskaja

“La verità non può essere uccisa”, 19 anni senza Anna Politkovskaja

Il 7 ottobre 2006, in un anonimo ascensore di un palazzo di Mosca, veniva assassinata Anna Stepanovna Politkovskaja, una delle voci più lucide e coraggiose del giornalismo indipendente russo. A diciannove anni di distanza, la sua storia rimane una ferita aperta nella coscienza collettiva e un monito per chi crede che la libertà di stampa possa sopravvivere anche al silenzio imposto dal potere.

Politkovskaja, nata nel 1958 da diplomatici sovietici di origine ucraina, aveva dedicato la sua vita a documentare la violenza in Cecenia e le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze federali. Lavorava per la Novaya Gazeta, testata che ancora oggi rappresenta una delle poche voci indipendenti rimaste in Russia.

Il 7 ottobre 2006, mentre rientrava a casa, fu colpita a morte da quattro proiettili nell’ascensore del suo condominio. Accanto al corpo, la polizia rinvenne una pistola Makarov con il caricatore scarico. Secondo le prime ricostruzioni, riportate allora da The Guardian, il delitto apparve da subito come un omicidio su commissione.

Pochi mesi prima, Politkovskaja era sopravvissuta a un tentativo di avvelenamento a bordo di un volo per Beslan. Come riportò Radio Free Europe (Radio Liberty), la giornalista sospettò che qualcuno avesse tentato di eliminarla per impedirle di denunciare gli abusi delle forze russe in Cecenia.

Dopo anni di indagini e rinvii, la giustizia russa arrivò a una serie di condanne, ma non alla verità. Nel 2014, cinque uomini furono riconosciuti colpevoli dell’omicidio. Secondo Voice of America News, tra loro figuravano Rustam Machmudov, identificato come l’esecutore materiale, e Lom-Ali Gaitukaev, condannato all’ergastolo come intermediario. Altri tre imputati - Ibragim, Džabrail Machmudov e Sergej Chadžikurbanov — ricevettero pene comprese tra 12 e 20 anni di reclusione.

Ma i mandanti non furono mai individuati. Come denunciò Human Rights House Foundation, “l’inchiesta è rimasta incompleta: la giustizia russa non ha mai chiarito chi abbia ordinato e finanziato l’assassinio”.

Una prima sentenza del 2009, raccontata da The Guardian, aveva addirittura assolto alcuni imputati per mancanza di prove, spingendo la Corte Suprema russa a riaprire il caso. Tuttavia, nemmeno il nuovo processo riuscì a risalire la catena di comando dietro il delitto.

Nel 2018, la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) condannò ufficialmente la Russia per non aver condotto un’“indagine efficace” sull’assassinio di Politkovskaja. La sentenza riportata dalla Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ), affermava che, pur essendo stati identificati alcuni esecutori, le autorità non avevano mai investigato in modo serio sui mandanti, come richiesto dall’articolo 2 della Convenzione europea sul diritto alla vita. La Corte di Strasburgo chiese alla Russia di “riaprire l’indagine in buona fede e di portare alla luce la rete di responsabilità, incluse quelle politiche”. Un monito che rimase senza seguito.

Diciassette anni dopo, la vicenda ha conosciuto un nuovo, sconcertante capitolo. Nel novembre 2023, Reuters rivelò che Sergej Chadžikurbanov, condannato a 20 anni per aver partecipato all’organizzazione dell’omicidio, era stato graziato dopo aver combattuto in Ucraina con l’esercito russo.

Secondo Associated Press, l’uomo avrebbe usufruito del programma di amnistia riservato ai detenuti che accettano di combattere al fronte. La famiglia di Politkovskaja e la redazione della Novaya Gazeta reagirono con indignazione: “È come se l’omicidio di Anna fosse stato premiato con una medaglia”, dichiarò uno dei colleghi storici della giornalista, citato da AP News. Reuters aggiunse che il Cremlino non commentò l’accaduto, né vennero fornite spiegazioni ufficiali dal Ministero della Giustizia russo.

Anna Politkovskaja era una cronista che non scriveva per compiacere, ma per testimoniare. Denunciava la tortura, la corruzione e le sparizioni forzate nella Cecenia di Ramzan Kadyrov, rivelando ciò che il potere voleva occultare. Le sue inchieste, pubblicate su Novaya Gazeta e raccolte nel volume 'La Russia di Putin', restano oggi tra i documenti più lucidi sulla deriva autoritaria del Paese.

Anna Politkovskaja

Secondo RFI (Radio France Internationale), la coincidenza della data dell’omicidio con il compleanno di Vladimir Putin “fu percepita da molti come un messaggio di potere: una dimostrazione che nessuna voce critica è intoccabile”.

La stessa Politkovskaja scrisse, in una delle sue ultime lettere: “Non scrivo per compiacere nessuno. Scrivo per non tradire chi non ha voce.”

Diciannove anni dopo, quella voce continua a risuonare. Non nei tribunali, dove la verità è rimasta sospesa, ma nelle redazioni, nei libri, nelle coscienze di chi sceglie ancora di raccontare.

Come ha ricordato la Federazione Internazionale dei Giornalisti nel 2024, “il giornalismo di Anna Politkovskaja resta una bussola etica per chi crede che raccontare significhi resistere”; e - per citare le parole dei suoi colleghi della Novaya Gazeta - “la verità può essere messa a tacere, ma non può essere uccisa”.

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