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05 Ottobre 2025 - 19:37
Gabriele Vacis
Caro direttore,
il suo giornale è uno dei fili sempre più sottili che mi legano alla mia città. Devo dire che le sue tirate spesso mi divertono, anche se una certa enfasi non è una mia passione specifica. I contenuti, però, quasi sempre li condivido. Quindi ieri sono stato tentato di chiamarla a proposito di un video che gira in rete.
L’altra sera, a Torino, in piazza Castello, finita l’oceanica manifestazione, i ragazzi di PoEM tiravano tardi e hanno assistito a una carica della polizia. Spaventosa. Nel video si vede benissimo: c’è un ragazzo che si prende cura di un altro, a terra. I poliziotti si avventano, non si capisce assolutamente perché, addosso ai malcapitati e manganellano.Siccome non c’è da manganellare per tutti, il video, impietoso, mostra inequivocabilmente la foga invasata di un poliziotto che si guarda intorno cercando non si sa quale minaccia, assolutamente inesistente.
In quest’ultima settimana, alla velocità sconsiderata in cui si muove il nostro mondo, stanno accadendo cose di cui è difficilissimo cogliere il senso profondo. Allora, proprio mentre i ragazzi di PoEM mi facevano vedere reel di poliziotti che abbassavano gli scudi, manifestanti che isolavano gente incappucciata all’urlo di “non vi vogliamo nel nostro corteo”, e poi il più famoso: il poliziotto che piange mentre i ragazzi del corteo gli spiegano le loro ragioni, Edoardo, un altro PoEM, mi manda quel video agghiacciante di piazza Castello.
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Mi sale la rabbia che ti prende quando trovi la multa sul parabrezza. Devo fare qualcosa! Chiamo il mio amico Venturini e scrivo un pezzo sulla Voce. Ma subito, per fortuna, mi scatta il pensiero razionale: perché devo far perdere tempo a voi per le mie paturnie? Però qualcosa devo fare.
Mi viene in mente di chiamare la mia amica Caterina e chiederle se ha visto quel video. Ma lei è molto offesa per un suo articolo, direttore. Mi spiega le sue ragioni. La faccio breve perché non voglio entrare nel merito: quando Caterina Greco era candidata a consigliera comunale di Torino non mi ha mai chiesto niente, anche perché, ovvio, io non voto a Torino.
Però ho molti amici torinesi e si chiacchierava di elezioni. Ed in più di un’occasione ho consigliato di votare Caterina o altri candidati che conosco e di cui mi fido. Ho fatto male? Perché mi fido di Caterina? Perché le azioni politiche che le ho visto fare mi sono sempre sembrate appropriate e condivisibili.
Qualche volta, come per i suoi articoli, magari non sono d’accordo. Specie quando parlo con lei del PD sempre più inadeguato alle circostanze. Ma se devo far sentire la mia voce per quella che considero un’ingiustizia — come due o tre ragazzi aggrediti in piazza Castello al termine di una giornata bellissima — chiamo Caterina perché porti la mia voce, insieme a quella di tanti altri, al consiglio comunale di Torino.
Perché alla fine mi sono fatto promettere che lo farà. Così chiedo anche a lei di guardare quel video e di denunciarne la violenza.
La ringrazio.
Gabriele Vacis
L’amicizia è una gran bella parola. Ci si fanno brindisi, libri, canzoni, carriere e, a volte, anche qualche favore di troppo. Tutti ne parlano come se fosse un valore assoluto, ma in realtà l’amicizia è un sentimento molto più pratico: serve, finché serve. Poi evapora come la schiuma di un prosecco versato in fretta.
C’è chi si vanta degli amici illustri, come se la sola frequentazione nobilitasse l’anima; chi li colleziona come biglietti da visita, da sfoderare al momento giusto; e chi invece si limita a sopportarli, perché nel frattempo possono tornare utili. È l’amicizia, bellezza. Quella che resiste ai pranzi elettorali, alle cene di partito e alle foto di gruppo con il sorriso tirato.
Poi ci sono gli altri, pochi, silenziosi, quelli che restano anche quando non c’è niente da guadagnare. Non chiedono voti, non ti taggano sui social, non cercano di essere visti accanto a te: semplicemente ci sono. Ti conoscono, e tanto basta.
E quando arriva il giorno in cui scopri che qualcuno dei tuoi vecchi amici si è candidato, o è finito citato in un’indagine con un nome che suona familiare, ti torna in mente quella vecchia lezione che nessuno impara mai: gli amici non si scelgono tanto per affinità, ma per distrazione. E si perdono, quasi sempre, per coerenza.
Alla fine, restano solo i veri amici: quelli che non ti hanno mai chiesto un voto.
E neppure glielo hai mai dato.
Da direttore di un giornale, mi vanto di non averne, di amici. Non me ne sono mai fatto un cruccio, anzi: è una gran libertà. Non ne sento il bisogno. Se qualcuno ha creduto di esserlo, si è sbagliato.
Non mi interessa chi è amico di chi, chi mi legge o chi mi odia, chi applaude o chi fischia. Come direbbe Guccini, scrivo quando posso, come posso, quando ne ho voglia, senza applausi né inchini.
Vendere il giornale o no non passa tra i miei rischi.
Non compratemi, e se vi va, sputatemi addosso.
Liborio La Mattina
C’è una linea sottile, ma luminosa, che attraversa quarant’anni di teatro, televisione, scuola e impegno civile. Su quella linea, in equilibrio perfetto tra parola e silenzio, tra palco e piazza, cammina da sempre Gabriele Vacis. Nato a Settimo Torinese nel 1955, è una di quelle figure che si fatica a incasellare: regista, drammaturgo, pedagogo, ma anche visionario artigiano della parola. La sua opera è un mosaico di linguaggi – dal teatro di narrazione al documentario, dal laboratorio sociale alla riflessione civile – in cui ogni tassello racconta l’Italia che pensa, che soffre e che cerca ancora di capire chi è.
Vacis inizia il suo percorso da architetto del Politecnico di Torino, ma invece di costruire edifici sceglie di costruire relazioni. Nel 1982 fonda con un gruppo di amici il Laboratorio Teatro Settimo, un luogo di sperimentazione che diventa presto una fucina di talenti e di idee. È lì che nasce la sua idea di teatro: non uno spazio separato dal mondo, ma un laboratorio vivo di comunità. L’attore, per Vacis, non è una star, ma un testimone. E il pubblico non è spettatore: è complice.
Negli anni Ottanta e Novanta arrivano i primi successi: Esercizi sulla tavola di Mendeleev, Elementi di struttura del sentimento, La storia di Romeo e Giulietta. Ma il vero colpo d’ala arriva con Il racconto del Vajont, scritto con Marco Paolini: un monologo potente, essenziale, che riporta in scena la tragedia del 1963 e la trasforma in una lezione di memoria civile. È un modo nuovo di fare teatro, senza scenografie, senza costumi, solo con la parola e la responsabilità di chi la pronuncia. Quella sera, davanti a milioni di telespettatori, nasce il “teatro di narrazione”.
Dietro quel linguaggio asciutto e preciso, però, c’è una filosofia più profonda: il teatro come strumento di cura. Negli ultimi anni Vacis ha fondato l’Istituto di Pratiche Teatrali per la Cura della Persona, dove si lavora con ragazzi, detenuti, malati, migranti. L’obiettivo non è lo spettacolo, ma la trasformazione umana. “Il teatro non serve a mostrare, ma a guarire”, ha detto in più occasioni. E non è una frase poetica: è un metodo, un modo per restituire alle persone la fiducia nella propria voce.
Il suo impegno educativo attraversa scuole e accademie: dalla Paolo Grassi di Milano al Teatro Stabile di Torino, di cui è stato a lungo una delle anime più autorevoli. Vacis ha formato generazioni di attori e registi, insegnando loro che la vera forza della scena è l’ascolto. È da questa visione che nascono esperienze come i PEM (Potenziali Evocativi Multimediali), giovani interpreti cresciuti nel suo laboratorio torinese, capaci di unire teatro, tecnologia e linguaggi contemporanei senza tradire la verità del racconto.
Ma Vacis non è solo un uomo di teatro: è anche autore di documentari e opere audiovisive. Il suo Uno scampolo di paradiso ha vinto premi internazionali, mentre le sue regie per la televisione – dai progetti culturali Rai fino ai docufilm – hanno portato l’arte del racconto oltre il palcoscenico. Sempre con lo stesso rigore, la stessa gentilezza feroce, la stessa fiducia nella parola.
Nel 2011 riceve il Premio Dioniso per la capacità di rinnovare la tradizione classica, e nel tempo dirige rassegne come Torino Spiritualità, dimostrando che la cultura non è un esercizio per pochi, ma un terreno di incontro tra anime diverse. È anche il regista di spettacoli che hanno riportato la tragedia greca al centro del dibattito contemporaneo – come Antigone e i suoi fratelli o Sette a Tebe – perché per Vacis il mito è una forma di politica: un modo per dire l’eterno con parole nuove.
Oggi, a quasi settant’anni, continua a muoversi con la leggerezza di chi non ha mai smesso di cercare. Il suo sguardo resta quello di un architetto che disegna spazi non per le case, ma per le coscienze. E se gli si chiede che cos’è il teatro, lui risponde con disarmante semplicità: “È l’arte di raccontare insieme. E in un’epoca in cui nessuno ascolta più nessuno, è già una rivoluzione.”
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