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05 Ottobre 2025 - 11:43
Elena Piastra
Per tre giorni è sparita dai radar. Nessuna foto, nessuna diretta, nessuna frase motivazionale.
Per chi conosce Elena Piastra "la chiacchierona", la "sindaca con gli stivali", la sindaca di Settimo Torinese, è stato un piccolo evento storico. Perchè lei solitamente sta sempre lì su Facebook a raccontare alle Sturmtruppen ogni respiro politico come fosse un’epopea, ogni riunione come un summit ONU e ogni selfie come un atto amministrativo. Nulla. Improvvisamente muta.
Non è stato un guasto ai social né un fioretto digitale: era a Roma, impegnatissima.
Non come semplice ospite, ma come vicepresidente nazionale di ALI – Autonomie Locali Italiane, sul palco del Festival delle Città, l’evento dove sindaci e amministratori si scambiano pacche sulle spalle raccontandosi quanto sono bravi a rendere l’Italia un Bel Paese.
Quest’anno il festival, intitolato “La città globale”, si è tenuto dal 1° al 3 ottobre 2025 alla Casa del Jazz di Villa Osio, a due passi dalle Mura Aureliane. Tre giorni di dibattiti, panel e applausi tra moquette e piante ornamentali, con oltre 200 sindaci e amministratori locali arrivati da tutta Italia per confrontarsi su temi come sostenibilità, coesione sociale, transizione digitale e diritti civili. Tra loro, naturalmente, anche la nostra Piastra, protagonista del panel altisonante: “La città giusta: giustizia sociale, equità e diritti”.
Sul palco, insieme a lei, sindaci e assessori da mezza Italia – da Cuneo a Pavia, da Sassari a San Gimignano – pronti a spiegare come rendere le loro città più “inclusive”. Tutto molto bello. Peccato che, nel frattempo, a Settimo Torinese, la parola “inclusione” abbia il suono amaro di chi si sente escluso anche solo dal diritto di camminare senza inciampare.
Un titolo da incorniciare, perfetto per i palchi e le dirette streaming, un po’ meno per chi, a Settimo, inciampa ogni dieci metri tra le buche di via Leinì o passa le giornate a tentare l’impossibile: fissare un appuntamento con l’anagrafe prima del prossimo solstizio.
Perché, cari noi, una città giusta non è quella che inserisce la parola “inclusione” in ogni documento ufficiale e poi va in cerca di “certificazioni” europee da esibire in conferenza stampa. È quella dove gli anziani possono uscire di casa senza rischiare di rompersi un femore, dove i marciapiedi non sono percorsi da marines e dove chi cammina non deve scegliere se guardare il cellulare o guardare dove mette i piedi.
Una città giusta è quella dove gli uffici pubblici sono aperti davvero — non “su prenotazione”, non “dalle 9:07 alle 10:42”, ma aperti. Punto. Perché la giustizia sociale inizia da un modulo compilato senza ansia, da un certificato ottenuto senza supplica, da una fila che non diventa un’odissea.
E sì, una città giusta può anche promuovere il digitale, ma non può trasformarlo in una barriera.
Perché gli anziani non sono un bug del sistema: sono la memoria viva della città.
E se per rinnovare una carta d’identità serve uno SPID, un computer e un master in informatica, allora non è innovazione: è esclusione travestita da modernità.
Poi ci sono i parchi, o meglio quello che ne resta.
Una città giusta è quella che li mantiene vivi, non quella che li lascia alle ortiche — letteralmente.
Perché quando le erbacce superano i bambini in altezza, e i cestini traboccano come nei film post-apocalittici, il problema non è la mancanza di risorse: è la mancanza di priorità.
E i topi, che a Settimo hanno ormai conquistato il diritto di cittadinanza, certo non hanno bisogno di un convegno sulla coesione sociale: si arrangiano benissimo da soli.
Vogliamo parlare della luce.
Non dei riflettori di Roma, ma dei lampioni di casa.
Perché la giustizia passa anche di lì, nelle strade illuminate e nei quartieri che non restano al buio.
Una città giusta è quella che investe sulla sicurezza vera, quella che si costruisce con la manutenzione, non con i proclami.
E infine, loro: i commercianti, quelli veri.
Quelli che ogni mattina alzano la serranda, resistendo a tasse, crisi, concorrenza e burocrazia.
Quelli che non finiscono nelle foto ufficiali, ma che tengono in piedi la città.
Perché sono loro la vera anima delle comunità, ciò che le rende vive, riconoscibili, diverse da qualsiasi altra.
Ogni bottega, ogni bar, ogni piccolo negozio è un pezzo di identità, un punto di riferimento, un sorriso quotidiano che nessun centro commerciale potrà mai sostituire.
E quando chiudono, non chiude solo un’attività: si spegne un frammento di città, si svuota un pezzo di umanità.
Una città giusta non si misura da quanti bandi scrive o da quanti protocolli firma, ma da quante vetrine riesce a mantenere accese, da quanti negozi resistono alla desertificazione del centro, da quanta fiducia c’è ancora nel restare, invece di scappare.
Intanto, mentre la sindaca Piastra parlava a Roma di equità, diritti e altre parole da convegno, Settimo continuava a fare i conti con i diritti negati tutti i santi giorni: il diritto a un marciapiede sicuro, il diritto a un parco pulito, il diritto alla luce, alla vivibilità, alla normalità.
Diritti minuscoli, ma veri. Quelli che non finiscono nei comunicati, ma che fanno la differenza tra vivere bene e sopravvivere male.
Perché le città giuste non si costruiscono nei panel, ma nelle strade, nei cortili, nei mercati, nei negozi, negli uffici dove la gente respira davvero.
E il problema, cara Piastra, non è che tu parli di “città giusta”.
È che, per i tuoi cittadini, quella città giusta è ancora tutta da costruire e oggi a Settimo si vive peggio di 10 anni fa.
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