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Lo Stiletto di Clio
25 Settembre 2025 - 15:20
Una rarissima immagine del Balon di Torino all'inizio del Novecento
«Siamo circondati, siamo giornalmente assediati dagli accattoni»: «tale è il loro numero che, anche nella supposizione che tutti fossero veramente poveri e non viziosi, non sarebbe però possibile di avere né i mezzi né il tempo di fermarsi con tutti e di soccorrerli tutti». A esprimersi con un tono fra lo sbigottito e l’inquietato non è Stefano Lo Russo, sindaco di Torino, in allarme perché «gli arrivi e la distribuzione dei migranti stanno mettendo sotto stress la rete di accoglienza ordinaria e straordinaria che è stata attivata» (agosto 2023). E neppure Giuseppe Sala, il primo cittadino di Milano, secondo il quale «l’immigrazione africana porta persone che hanno un livello d’istruzione pari a zero e che non hanno mai lavorato» (ottobre 2018). Per tacere del generale Roberto Vannacci. Chi si lamenta è un illustre personaggio di altri tempi, il conte Luigi Francesetti di Mezzenile (1776-1850). Correva l’anno di grazia 1827. In una Torino che contava suppergiù 110 mila abitanti ed era la capitale di un piccolo Stato, il Regno di Sardegna, non ancora teso all’unità d’Italia, vagabondi e accattoni abbondavano.
Troppo a lungo, purtroppo, gli storici hanno sorvolato su questo aspetto della vita torinese, privilegiandone altri, meno problematici e in linea con la tradizione sabaudo-risorgimentale. Nel 1989 Umberto Levra (1945-2021) pubblicò un bel saggio sulla Torino del popolo fra il 1814 e il 1848, specie sui «ceti più bassi», quelli che non avevano alcun peso politico, pur essendo maggioranza. A tal fine egli si avvalse di alcuni interessantissimi fondi documentari, fra cui numerose carte inedite di polizia. Da queste emerge che pezzenti e vagabondi erano dappertutto in Torino, assai più di oggi: nelle strade e nelle piazze, fuori e dentro le chiese, presso le botteghe e negli androni dei palazzi. Non di rado – come si apprende da una relazione del 1837 sull’ordine pubblico – i mendicanti questuavano con «aspetti e modi aspri ed incutenti timore, per le scale delle case e per le pubbliche passeggiate, non solamente di giorno, ma ben anche sull’imbrunire od a notte avanzata».
La distribuzione della minestra ai poveri in una tela del pittore torinese Giovanni Michele Graneri (1708-1762)
La torinese piazza Carignano nel XIX secolo
Che dire di quel tal Domenico Sartore, canavesano, quarantenne, che fu arrestato in via Carlo Alberto perché chiedeva l’elemosina con un nodoso bastone, sicuramente per stimolare la prodigalità dei passanti?
I verbali di polizia attestano come ogni anno, per la ricorrenza di Ognissanti e la commemorazione dei Defunti, migliaia di vagabondi, straccioni e operai senza lavoro sciamassero dalle più diverse località del Piemonte per affluire a Torino. Non mancavano gli «individui di sospetta apparenza, alcuni in età robusta e giovanile, altri vecchi e di cattiva salute, e donne attorniate di bambini». Per lo più i questuanti si disponevano in file interminabili lungo la strada del Regio Parco, infastidendo coloro che si recavano al cimitero. Le fonti d’archivio insistono sulla sfrontatezza e la petulanza con la quale i mendichi chiedevano la carità, lasciandosi andare a villanie e prepotenze.
Contro una simile massa di persone non vi erano provvedimenti efficaci. E pensare che la legge subordinava l’esercizio della questua al preventivo rilascio di un’autorizzazione da parte degli uffici di polizia. In pratica, per elemosinare, i poveri dovevano esibire un apposito distintivo in latta gialla. All’epoca, tuttavia, già risultava palese che un fenomeno di tipo strutturale, dipendente dalle cicliche crisi economiche e da un’agricoltura arretrata, non era arginabile con semplici misure di ordine pubblico. Per tale ragione capita sovente di leggere, nei verbali di polizia, che gli agenti reputavano «intempestivo» l’arresto di accattoni e questuanti, «tenuto conto dell’universale […] miseria».
Possibile che la storia, di questi tempi, non abbia nulla da insegnare?
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