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Stellantis, il disastro di Atessa: 1.600 posti persi e una valle lasciata a se stessa

Dal 2021 lo stabilimento abruzzese ha visto crollare la produzione da 310 mila a 192 mila furgoni. Sindacati e istituzioni denunciano il disinvestimento del gruppo, mentre le promesse di Elkann e Tavares restano solo propaganda

Stellantis, il disastro di Atessa: 1.600 posti persi e una valle lasciata a se stessa

Stellantis, il disastro di Atessa: 1.600 posti persi e una valle lasciata a se stessa

Stellantis ad Atessa non è più il fiore all’occhiello dell’automotive italiano, ma il simbolo di un fallimento industriale che si consuma nel silenzio generale. I numeri parlano da soli e non lasciano spazio a interpretazioni: 1.600 lavoratoripersi in soli quattro anni e una produzione crollata da 310 mila furgoni nel 2021 a 192 mila nel 2024. In qualunque Paese con una strategia industriale degna di questo nome, un simile tracollo verrebbe affrontato come un’emergenza nazionale. Da noi, invece, viene raccontato con la solita retorica aziendale che continua a definire Atessa “punto di forza del gruppo”. Un ossimoro, una beffa, una presa in giro per chi, dentro e fuori la fabbrica, ha visto il lavoro evaporare e il futuro restringersi.

Al Val di Sangro Expo, dove si è discusso della crisi del settore automotive, è andata in scena la rappresentazione plastica di una contraddizione che non si vuole ammettere: Stellantis continua a vendersi come gigante globale, ma nei suoi stabilimenti italiani lascia dietro di sé solo esuberi, cassa integrazione e progetti rimandati sine die. Il sindaco di Atessa, Giulio Borrelli, ha provato a difendere la dignità di un territorio che non si arrende: “Questo territorio è il cuore pulsante dell’economia regionale. La tempesta dell’automotive ci investe in pieno”. Parole che suonano come un grido d’allarme, perché qui la tempesta non è un capriccio del destino ma il frutto di precise scelte industriali: un Green Deal europeo imposto senza infrastrutture adeguate, una concorrenza cinese che dilaga, e una Stellantis che in Italia disinveste mentre in Spagna, in Marocco o in Cina piazza la produzione e gli investimenti veri.

Non sorprende che gran parte del dibattito sia stato monopolizzato dalla transizione all’elettrico, il grande alibi dietro cui si nascondono responsabilità più profonde. Marco Matteucci di Confindustria Medio Adriatico ha ricordato che le auto ibride sono passate dal 30 al 45% delle vendite in due anni, segno che il mercato chiede sostenibilità, ma anche realismo. Senza infrastrutture, pensare a una rete solo elettrica è illusorio. Tornare indietro è impossibile, ma non lo è gestire la transizione con investimenti e competenze, due parole che Stellantis sembra aver rimosso dal vocabolario italiano.

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Molto più diretto è stato Samuele Lodi, segretario nazionale della Fiom, che ha messo il dito nella piaga: “Parlare di automotive in Italia significa parlare di Stellantis. Oggi siamo all’ottavo posto in Europa, vent’anni fa eravamo secondi. La transizione, così come voluta dall’Europa, è stata fatta contro i lavoratori. Ma la responsabilità è di Stellantis, che ha scelto di disinvestire progressivamente nel nostro Paese”. È il nodo vero: non è l’Europa a decidere di chiudere stabilimenti in Italia, è Stellantis che pianifica altrove e lascia le briciole qui.

Ancora più feroce è stato Rocco Palombella della Uilm, che non ha avuto paura di parlare di “disastro”: i saloni sono pieni di auto elettriche cinesi vendute a cinquemila euro, mentre una Fiat 500 costa sei volte tanto. Un marchio simbolo della storia industriale italiana trasformato in un prodotto di lusso inaccessibile. “Gli incentivi non servono se la gente non ha i soldi. Filosa, invece di parlare con il Governo, venga a parlare con i lavoratori e le famiglie”. La sfida, in altre parole, non è nei comunicati stampa ma nelle case di chi non riesce più a permettersi un’auto, in un Paese dove inflazione e salari da fame hanno falcidiato il potere d’acquisto.

E poi c’è Stefano Boschini della Fim, che ha smontato pezzo per pezzo la favola del “piano Tavares”. Anticipare la transizione si è rivelato un fallimento. La maggior parte degli stabilimenti italiani è ferma, Pomigliano e Atessa fanno eccezione, ma per quanto? Intanto il caro energia ha spento anche il sogno della gigafactory di Termoli, messa in stand by senza troppi rimpianti. Le batterie, cuore della mobilità elettrica, Stellantis ha deciso di produrle in Spagna. Come se l’Italia fosse ormai destinata a restare un mercato di consumo, non più di produzione.

Su questo terreno fertile di illusioni e mezze verità è piombato anche Carlo Calenda, che ha fatto saltare il banco di una narrazione politica costruita sul nulla: “La pace tra Governo ed Elkann è basata su una storia che non c’è. Non si passa da 400 mila a un milione di veicoli in due anni. Richiamate Elkann e Filosa, smettetela con i selfie con la Juventus. Incalzateli, volume per volume. Ma la verità è che di industria a questo Paese non importa più nulla, eppure ha costruito il nostro benessere”. Qui non si tratta solo di Stellantis, ma della rimozione totale del tema industria dall’agenda politica nazionale.

Palombella ha allargato il tiro: la crisi dell’automotive non dipende solo dall’elettrico, ma dall’emergenza salariale che ha tolto ai cittadini persino la possibilità di comprare un’auto, dalla priorità di curarsi e pagare le bollette piuttosto che mettersi in garage un modello nuovo, dal caro energia che ha colpito tutta la filiera. “Non servono bonus o incentivi spot, ma politiche industriali strutturali, a medio e lungo termine”. E invece in Italia regna l’improvvisazione, la politicizzazione sterile, la passerella.

Intanto, a Melfi i lavoratori attendono notizie su nuovi modelli che non arrivano mai, a Mirafiori le linee della 500 elettrica vengono continuamente fermate per mancanza di ordini, a Termoli la promessa della gigafactory è diventata una barzelletta da raccontare al bar. L’epopea di un gruppo che avrebbe dovuto garantire un futuro all’industria automobilistica italiana si sta trasformando in un lento stillicidio, in cui l’unico denominatore comune è la perdita di posti di lavoro.

In tutto questo, Stellantis continua a raccontarsi come multinazionale proiettata al futuro, attenta alla sostenibilità e all’innovazione. Ma la realtà, almeno in Italia, è quella di un gigante dai piedi d’argilla, che non investe, non rischia, non progetta. I suoi manager firmano accordi col Governo e sorridono ai convegni, ma quando si aprono i cancelli degli stabilimenti il conto lo pagano sempre i lavoratori, i sindacati, le famiglie.

Se Atessa è ancora definita “il punto di forza del gruppo”, allora non osiamo immaginare cosa significhi per Stellantisun impianto in difficoltà. Forse vuol dire già chiuso, già sacrificato, già spostato altrove. Il futuro dell’automotive italiano, se lasciato in queste mani, rischia di non esserci più. E il rumore delle promesse mancate non coprirà mai il silenzio delle catene di montaggio ferme.

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