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15 Settembre 2025 - 23:08
Chiara Appendino
Alla Festa dell’Unità, tra salamelle virtuali (i cortinari non ci sono più da un pezzo) e gazebo democratici, è successo un piccolo miracolo: qualcuno ha parlato di politica. Non di percentuali, di sigle, di tavoli da apparecchiare per tenere tutti buoni, ma di parole. Quelle vere, che scottano. È stata Chiara Appendino, ex sindaca di Torino e oggi numero due di Giuseppe Conte, a rovinare la digestione a più di un dirigente Pd con una frase che pare scolpita per essere ricordata: «Credo nel testardamente coerente». Un colpo di freno al campo largo, quello che nelle fantasie di Elly Schlein dovrebbe tenere insieme Pd, M5s e Avs. Fantasie, appunto. Appendino le ha rovesciate con eleganza chirurgica: «Serve discontinuità. Non per me, per Torino». Traduzione: tenetevi pure i vostri cartelli elettorali, ma se non siete in grado di parlare a chi non vota più, a chi non arriva a fine mese, a chi non si sente visto, non sperate che i 5 Stelle vi tengano la mano.
La domanda che circola da settimane è sempre la stessa: ci sarà l’intesa per la prossima consiliatura? Appendino, lapidaria: «Non lo so. Posso dire quel che penso io». E ciò che pensa non ha bisogno di interpretazioni: non un matrimonio d’interesse, ma un progetto politico nuovo. Non la somma di loghi da piazzare sulla scheda, ma la capacità di rappresentare chi oggi non ha voce. Tutto il contrario della recita stanca che va in scena da mesi. Alla formula schleiniana «testardamente unitaria», Appendino contrappone il suo «testardamente coerente». Non è solo una battuta: è un manifesto. Perché – dice – «sedersi a un tavolo e dialogare su un progetto nuovo, magari. Ma a questo tavolo io sembra proprio non ci sarò». Altro che selfie di gruppo: qui si parla di scegliere se continuare con il solito copione o aprire una pagina nuova. E una pagina nuova, per Appendino, significa una leadership diversa.
E qui casca l’asino, o meglio il sindaco Stefano Lo Russo. Appendino lo nomina senza nominarlo, ma il senso è chiarissimo: discontinuità vuol dire archiviare anche la sua esperienza. «Non è una cosa personale, magari lo fosse: si risolverebbe davanti a un caffè. Io credo nella discontinuità». Perfino quando ricorda che Lo Russo l’aveva ringraziata per il lavoro sulle Atp, Appendino non si lascia intenerire: grazie per la cortesia, ma il biglietto d’uscita resta sul tavolo.
Appendino non si limita a marcare la distanza dal Pd. Alza il tiro: «Battere le destre è troppo facile». Facile? Difficile? Comunque poco interessante. Il vero avversario è l’astensione. È lì che guarda: «Chi non crede più nelle istituzioni, chi non prende nemmeno la tessera elettorale, chi rinuncia alla carne perché non ce la fa». È a loro che bisogna parlare. E lo dice con una brutalità che spiazza: «Non posso essere protagonista io. Ma non può esserlo neppure chi governa questa città». Messaggio ricevuto. O almeno si spera.
Il siparietto si consuma davanti a un parterre che più eterogeneo non si può: Silvia Fregolent (Italia Viva), Andrea Giorgis (Pd), Marco Lombardo (Azione), Marco Grimaldi (Avs). Un mosaico di sigle che dovrebbe comporre l’affresco del campo largo. Ma le parole di Appendino suonano come la firma sotto un avviso: prima viene la coerenza identitaria, poi – forse – le alleanze. Chi non è d’accordo, pazienza. Alla fine resta la domanda che brucia: chi può incarnare questa discontinuità? Perché Appendino mette in chiaro di non voler essere la protagonista, ma chi se non lei può agitare così tanto le acque? Il Pd dovrà scegliere se intestarsi l’ennesima candidatura di apparato o se accettare la sfida di cambiare davvero. Sullo sfondo, intanto, resta l’ombra lunga di un elettorato stanco, silenzioso, invisibile. Quello che Appendino evoca come un monito: se non li guardate voi, non vi guarderanno loro. E addio “campo largo”, benvenuto deserto.
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