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Nino Costa, la voce poetica del Piemonte

A ottant’anni dalla morte, il ricordo del poeta che ha dato voce all’anima della sua terra, tra dialetto, vita vissuta e un testamento spirituale di perdono e riconciliazione

Nino Costa, la voce poetica del Piemonte

Nino Costa

Funzionario di banca nella vita di ogni giorno, spirito sensibile, aperto alle istanze culturali del tempo, Nino Costa è uno dei maggiori poeti piemontesi. Nato a Torino il 28 giugno 1886, morì ottant’anni fa, il 5 novembre 1945. A lui sono dedicate vie e scuole in molti centri della regione perché Costa ha saputo esprimere, più di ogni altro, l’animo della gente piemontese. La sua personalità domina il panorama della letteratura subalpina fra le due guerre mondiali. Autore di commedie teatrali, novelle, bozzetti scenici e, soprattutto, raccolte poetiche, Costa è certamente la voce più limpida del Piemonte letterario moderno.

«La poesia di Nino Costa – osservava lo storico Francesco Cognasso (1886-1986) – è mossa dal cuore. Egli ama la natura, la famiglia, la terra dove è nato, il dovere di ogni giorno. Versi musicali, una facilità grandissima, ma sempre una serenità che sa di dolce melanconia; sente che tutto è destinato a passare, ma sente che così tutto si conserva».

Ebbe a scrivere Luigi Einaudi, presidente della Repubblica italiana dal 1948 al 1955: «Non ho mai osato, temendo di non ritrovarlo al suo luogo, ritornare all’ombra del robusto fico secolare posto, invece del pergolato, al margine dell’aia della bicocca un tempo posseduta dalla nonna, dove tante volte mio fratello ed io abbiamo fatto, ragazzi, merenda di pane ed uva; ma se ci tornassi vorrei avere con me il libro nel quale Nino Costa canta la melanconia delle sere nelle Langhe, quando le musiche dei grilli fanno la grida e lui trae conforto alla caducità delle cose umane dal pensiero del rispuntare perenne delle erbe, delle foglie, dei fiori, del crescere delle piante, del rinnovarsi delle nuove culle, che consolano la nonna, turbata dal costume nuovo dei giovani, perché “almeno lòn l’é ancora nen cambià”».

Nino Costa è il poeta che esprime la gioia, ma anche il tormento, il dolore, la pena di vivere. È il poeta della terra e dell’uomo, della campagna, dei paesaggi agresti, delle suggestioni antiche. Come rilevava Riccardo Massano (1926-2009), professore di letteratura italiana all’Università di Torino, egli «ha cantato proprio le cose che Pavese ha desiderato ardentemente ed ha cercato invano fino a morirne: gli affetti più belli e più puri, la madre, la sposa, la propria terra, la casa..., fino a morirne quando lo scrivere è parso solo letteratura e non vita».

Nino Costa aborriva dalle preziosità stilistiche, anche se era in grado di servirsene al momento opportuno. La sua poesia, per quanto ricca di componenti letterarie, affonda le radici in una sofferta esperienza di vita. «Per questo senso della vita concreta […], Costa – continua Massano – sceglie il dialetto dei padri e della sua gente come lingua della sua poesia. Non si tratta assolutamente della scelta di un genere letterario, bensì di una scelta di vita: per lui la lingua piemontese, come lingua nativa, è la sola in cui possa accendersi la celerità geniale della propria ispirazione creativa, dispiegando liberamente l’onda del suo canto».

Di Costa ci rimangono sei raccolte di liriche: «Mamina» del 1922, «Sal e peiver» del 1924, «Brassabòsch» del 1928, «Fruta madura» del 1938 e «Tempesta», quest’ultima apparsa postuma nel 1946.

Più che da una poesia in particolare, la vera natura dell’animo di Costa emerge da un drammatico episodio che lo vide protagonista sul finire dei suoi giorni. Nell’agosto 1944 il figlio diciannovenne del poeta, Mario, partigiano in Val Chisone, nella prima divisione autonoma, perse la vita sul monte Genevris, in seguito a una delazione. Per il padre si trattò di un colpo durissimo, tale da condurlo alla tomba l’anno seguente. Nei giorni della Liberazione, il delatore cadde nelle mani dei partigiani e fu condotto a casa dei Costa, affinché la morte del giovane potesse essere vendicata. Ma il poeta, fra lo stupore dei presenti, abbracciò l’uomo e volle che fosse rimesso in libertà. Quest’ultimo, in seguito, volle che il proprio figlio si chiamasse Mario: ogni anno mandava una corona di fiori sulla tomba dei Costa, a Ciriè. Per non dimenticare.

Qualche mese prima, in una sorta di testamento spirituale indirizzato al figlio scomparso, Nino Costa aveva scritto: «Tu eri la forza della nostra casa, l’orgoglio della nostra casa, la speranza della nostra casa. Ora la nostra casa non ha più forza, non ha più orgoglio, non ha più speranza. [...] Umilmente, per te, abbiamo perdonato e perdoniamo i tuoi uccisori materiali e morali. Ma non perdoniamo alle idee perché sappiamo di quanto male siano madri. Desideriamo piuttosto che l’eroico sacrificio della tua vita serva a riconciliare fraternamente gli italiani».

Su una stele nel parco torinese del Valentino è riportata la strofa conclusiva della popolarissima poesia «Nivole»: «Quand ch’aj rivrà l’ora pì granda: l’ultima, \ e ch’am ciamran lòn ch’i l’hai fait ëd bel, \ mi rispondrai ch’i l’hai goardà le nivole: \ le nivole ch’a van... travers al cel». Anche questo è Nino Costa.

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«Tempesta», l'ultima raccolta di liriche de l poeta, usci postuma nel novembre 1946

«Tempesta», l'ultima raccolta di liriche de l poeta, usci postuma nel novembre 1946

La stele di Nino Costa a Torino, nel parco del Valentino

La stele di Nino Costa a Torino, nel parco del Valentino

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