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06 Settembre 2025 - 10:40
È morto a 92 anni l’archistar Pietro Derossi, uno dei grandi protagonisti della cultura del progetto italiana. La notizia della sua scomparsa, avvenuta nella villa sulla collina torinese che lui stesso aveva progettato e abitato, chiude un percorso che non è mai stato soltanto professionale ma anche personale, quasi esistenziale. Architetto e designer di fama internazionale, Derossi ha saputo coniugare rigore e fantasia, facendo dell’architettura un atto culturale prima ancora che tecnico.
Le radici canavesane hanno sempre rappresentato un punto fermo della sua vita. Ne è prova l’acquisto del Castello di Barone, fortemente voluto dal padre Paolo. Un edificio che affonda le sue origini nel medioevo e che nel Settecento fu trasformato in residenza barocca dalla famiglia Valperga. I lavori, avviati nel 1772 e conclusi nel 1774, furono affidati all’architetto Costanzo Michela di Agliè, già collaboratore di Juvarra, che immaginò un complesso ispirato alla Reggia di Stupinigi. Solo una parte del progetto fu realizzata, probabilmente per mancanza di fondi, ma l’impatto resta imponente. Per Paolo Derossi, acquistare quel castello significava custodire la memoria e creare un luogo dove riunire tutta la famiglia, un gesto insieme affettivo e simbolico. Non era un capriccio immobiliare, ma un atto di radicamento.
"La famiglia Derossi proviene da Caluso - raccontava il figlio di Pietro Derossi, Paolo, in un'intervista di qualche tempo fa -. I miei genitori si sono sposati qui. Sia io che i miei fratelli, siamo stati battezzati in questo castello e ci siamo sposati qui. Questo castello ha significato molto per la nostra famiglia".
Un episodio racconta bene il fascino del maniero: qualche anno fa, Vittorio Sgarbi, di passaggio in Canavese, volle visitarlo di notte. Su consenso della famiglia Derossi, ad aprirgli i portoni fu il sindaco Alessio Bertinato, che per l’occasione fece da cicerone improvvisato. Una scena surreale, che ben restituisce l’aura magnetica di quel luogo tanto caro a Derossi.
Torinese di nascita e laureato al Politecnico, Pietro Derossi apparteneva a quella generazione di architetti che hanno saputo dare all’Italia un respiro internazionale senza perdere di vista l’ancoraggio urbano. Il suo insegnamento non si fermò al Piemonte: portò le sue idee in atenei prestigiosi di tutto il mondo, dall’Architectural Association di Londra al Pratt Institute e alla Columbia di New York, dal Politecnico di Losanna alla Hochschule der Künste di Berlino. Non era un semplice professore, ma un costruttore di dialoghi: le sue lezioni diventavano veri e propri laboratori di scambio culturale, dove l’architettura smetteva di essere una lingua chiusa e si apriva al confronto con la contemporaneità.
Il segno lasciato da Derossi nei cantieri è evidente. A Torino resta memorabile il Villaggio Olimpico delle Olimpiadi invernali 2006, un quartiere colorato e innovativo pensato per accogliere atleti da tutto il mondo e successivamente restituirlo ai cittadini come nuovo modello di abitare urbano. Qui il colore non era decorazione, ma strumento urbano: orientava, connetteva, raccontava.
Nel 1994, insieme ai figli Paolo e Davide, fondò lo studio Derossi Associati, una realtà che divenne simbolo di continuità generazionale. Più che un ufficio, una bottega contemporanea: un luogo collettivo dove idee, tecniche e persone diverse si intrecciavano per costruire una pratica condivisa. In quegli anni arrivarono riconoscimenti importanti, come i concorsi vinti per il Centro di conservazione e restauro della Reggia di Venaria e per il Museo e Palazzo dello Sport di Vercelli. Scelte che non erano mai casuali: la cura del patrimonio, la responsabilità verso gli spazi pubblici e l’investimento sulla qualità del quotidiano rappresentavano i suoi punti fermi.
Il figlio, l'architetto Paolo Derossi
Non meno significativa fu la sua attività di designer. Derossi seppe ampliare i confini del linguaggio architettonico dando vita a oggetti che sono entrati nell’immaginario collettivo. Il più celebre è senza dubbio il Pratone, il divano che sembra un prato con lunghi fili d’erba verdi, realizzato insieme a Giorgio Ceretti e Riccardo Rosso. Un pezzo di antidesign che ribaltava i codici estetici convenzionali, trasformando il gesto del sedersi in un’esperienza ludica e sensoriale. Oggi è custodito in musei di fama mondiale, come il MoMA di New York, ed è ancora considerato un’icona rivoluzionaria del design del Novecento. Ma Derossi firmò anche altre invenzioni entrate nella storia, come la seduta Torneraj, sempre insieme ai suoi sodali Ceretti e Rosso.
La sua eredità non si misura soltanto negli edifici o negli oggetti, ma in un atteggiamento etico e civile. Credeva che l’architettura dovesse migliorare la vita delle persone, senza dimenticare la dimensione poetica. Per lui il progetto era insieme utilità e racconto, infrastruttura e immaginazione. Una città, diceva, è davvero tale solo se sa accogliere la complessità, colorarla e renderla comprensibile.
Oggi che le luci del suo ultimo cantiere si sono spente, resta intatta la forza di un percorso che ha unito la collina torinese, i cantieri olimpici, le aule universitarie di mezzo mondo, gli oggetti che hanno fatto scuola e, soprattutto, il castello canavesano di Barone, simbolo di una vita che non smise mai di intrecciare affetti e visioni. Pietro Derossi ha abitato il mondo come fosse un progetto e ha lasciato in eredità l’immagine di un architetto capace di trasformare la propria biografia in architettura, e l’architettura in un racconto collettivo.
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