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Guerra sull’acqua: la Regione Piemonte sfida Roma ma vuole prosciugare i fiumi

L’articolo 34 della legge Omnibus rinvia il deflusso ecologico e autorizza prelievi fino al 70% delle portate. Il Governo impugna la norma davanti alla Consulta, Bruxelles osserva, mentre i fiumi piemontesi rischiano di ridursi a rigagnoli

Guerra sull’acqua: la Regione  Piemonte sfida Roma ma vuole prosciugare i fiumi

Alberto Cirio, sullo sfondo il Po tra Chivasso e Crescentino

È scontro aperto tra Regione Piemonte e Governo nazionale, e il campo di battaglia non potrebbe essere più vitale: l’acqua dei fiumi. Il Consiglio dei ministri ha deciso di impugnare davanti alla Corte costituzionale la legge regionale 9, approvata il 2 luglio 2025 dal Consiglio regionale ed entrata in vigore pochi giorni dopo la pubblicazione sul Bollettino ufficiale. Una legge omnibus che tocca vari settori, dalla sanità all’urbanistica, ma al cuore della controversia c’è l’articolo 34, quello che consente di aumentare i prelievi idrici per scopi agricoli, andando in rotta di collisione con le normative nazionali ed europee.

Il punto è semplice: l’Europa, attraverso la Direttiva Quadro Acque 2000/60/CE, ha imposto agli Stati membri di garantire il cosiddetto deflusso ecologico, cioè una quantità minima di acqua da mantenere sempre nei fiumi per non comprometterne la vita. È una misura di tutela indispensabile, recepita dall’Italia, che doveva essere pienamente operativa già da anni. Il Piemonte invece ha deciso di rimandarne l’applicazione al 31 dicembre 2026, concedendosi altri due anni di deroghe. Non basta: la stessa norma stabilisce che nei corsi d’acqua caratterizzati da momenti di siccità si possa prelevare fino al 70% della portata, lasciando a valle appena il 30%. Nei mesi estivi, quando i fiumi sono già ridotti all’osso, si tratta di una vera e propria licenza di prosciugamento.

Già a luglio, all’indomani dell’approvazione, erano esplose le prime polemiche. Legambiente aveva parlato di “regalo alle lobby agricole”, sottolineando che mettere in contrapposizione agricoltura e ambiente è una scelta miope e ideologica, capace di causare danni irreversibili. Pro Natura aveva avvertito del rischio concreto di una procedura d’infrazione europea, mentre diversi studiosi avevano ricordato che non spetta a una Regione derogare a una direttiva comunitaria. Già allora era evidente che l’impugnativa fosse dietro l’angolo.

Ma la giunta di centrodestra guidata da Alberto Cirio non ha voluto arretrare. Anzi, il presidente ha rivendicato apertamente che l’articolo 34 è stato concepito come una “provocazione normativa”, scritta sapendo che sarebbe stata impugnata, per “portare il tema a Bruxelles” e mostrarsi come difensore delle aziende agricole piemontesi. Un messaggio politico più che una soluzione concreta. L’assessore all’Ambiente Matteo Marnati è arrivato a sostenere che “l’acqua per le risaie non è sprecata, sono invasi naturali che incentivano la biodiversità”, un’affermazione che ha fatto inorridire gli idrobiologi: un campo di riso non sostituisce un ecosistema fluviale, non garantisce la sopravvivenza di pesci e anfibi, non ricarica le falde e non mantiene i cicli naturali.

Il Governo Meloni, pur vicino politicamente alla giunta Cirio, non ha potuto chiudere un occhio. Troppo evidente la violazione della Costituzione e delle regole comunitarie. E così, dopo settimane di tentativi di mediazione da parte dei ministeri competenti – Ambiente, Cultura e Giustizia – è arrivata l’impugnativa: la legge finirà davanti alla Corte costituzionale. La vicenda non è più solo piemontese, ma nazionale ed europea.

Intanto i numeri parlano chiaro. In Piemonte, circa l’80% dei volumi idrici prelevati è destinato all’irrigazione agricola. Nei mesi estivi, il Po e i suoi affluenti – Dora Baltea, Orco, Tanaro – si riducono spesso a letti di ghiaia, con portate minime già oggi insufficienti a garantire l’equilibrio ecologico. Consentire prelievi fino al 70% della portata significa condannarli alla morte biologica. Non è un’ipotesi astratta: nel 2022 e nel 2023, durante le ondate di siccità, interi tratti di fiumi piemontesi hanno registrato livelli mai visti prima, con conseguenze devastanti per fauna e agricoltura stessa.

Le alternative ci sarebbero. Invasi artificiali moderni, capaci di accumulare acqua nei periodi di piena; riuso delle acque reflue depurate, già praticato in diversi Paesi europei; tecniche di irrigazione di precisione, che riducono drasticamente gli sprechi. Sono soluzioni strutturali che richiedono investimenti e visione. La Regione Piemonte ha scelto invece la scorciatoia: derogare alle regole e consentire di prelevare di più, rinviando il problema a data da destinarsi.

Il risultato è un paradosso lampante: per difendere l’agricoltura si sacrifica l’acqua, cioè la risorsa che rende possibile l’agricoltura stessa. È come tentare di salvare un malato togliendogli l’ossigeno. Una scelta che guarda al consenso immediato, ma che compromette il futuro. Perché un fiume prosciugato oggi non torna rigoglioso domani, e un ecosistema distrutto non si ricostruisce con un voto in Consiglio.

Insomma, altro che “clima sereno”, come ama ripetere Cirio: la realtà è quella di un Piemonte che ha scelto di sfidare Roma e Bruxelles con una legge fragile e pericolosa, un braccio di ferro istituzionale che non porterà acqua ai campi, ma rischia solo di lasciare a secco i fiumi e i cittadini. E quando l’acqua se ne va, non la riporta indietro nessuno.

il Po

L’acqua usata come bandiera

Ad agosto, tra Chivasso e Crescentino, il Po era ridotto a un letto di sassi. Il più grande fiume d’Italia trasformato in una lingua di ghiaia, senza corrente, senza vita. Tutta l’acqua nel canale Cavour, come se il fiume potesse essere trattato come un serbatoio privato da svuotare a piacere. Quella scena non è stata un incidente isolato: è stata la dimostrazione plastica di cosa succede quando la politica abdica al suo compito di tutela e preferisce piegare la natura agli interessi immediati.

Il disastro di agosto avrebbe dovuto aprire un dibattito serio, imporre scelte di responsabilità, spingere a investire su invasi, riuso delle acque reflue, irrigazione di precisione. Invece la Regione ha deciso di farne una legge. Con l’articolo 34 della Omnibus, approvata a luglio, la maggioranza di centrodestra ha scelto di rinviare ancora una volta il deflusso ecologico e di autorizzare prelievi fino al 70% delle portate. Non un inciampo, ma un atto consapevole: istituzionalizzare lo svuotamento dei fiumi.

Alberto Cirio lo chiama “provocazione normativa”, Matteo Marnati ci racconta la favola delle risaie come “invasi naturali”. Ma non c’è formula elegante né slogan che possano cancellare l’immagine del Po ridotto a un greto asciutto. Quella fotografia vale più di mille comunicati: è la prova che le scelte della Regione stanno trasformando la crisi climatica in normalità politica, legittimando lo sfruttamento totale della risorsa più preziosa.

Questa non è difesa dell’agricoltura. È un tradimento. Perché senza acqua non ci sono campi, non ci sono raccolti, non c’è futuro. Qui non si tratta di salvare i contadini, ma di salvare qualche punto di consenso, sacrificando il domani per strappare applausi oggi. È il gioco sporco di chi non governa ma si limita a spostare l’acqua – letteralmente – dove conviene di più politicamente.

Il Po secco di agosto rimane come una ferita aperta. Una ferita che racconta l’arroganza di chi usa i fiumi come rubinetti personali e il bene comune come bandiera di partito. Altro che “clima sereno”: la verità è che in Piemonte la politica ha scelto di prosciugare il suo fiume più grande pur di riempire di slogan i comizi.

E quando un fiume muore, non bastano le parole per riportarlo in vita.

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