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29 Agosto 2025 - 10:27
Andrea Tronzano
Il conto alla rovescia per le comunali del 2026 a Torino è già scattato. Sebbene manchi ancora più di un anno al voto, il centrodestra ha iniziato a muovere le prime pedine, con un dibattito interno che ruota intorno a tre nomi destinati a far discutere: Andrea Tronzano, Maurizio Marrone e Filippo Dispenza. Profili diversi, percorsi politici e istituzionali lontani tra loro, accomunati però da una domanda cruciale: chi sarà il candidato giusto per provare a scalzare Stefano Lo Russo, il sindaco di centrosinistra che nel 2021 conquistò Palazzo Civico senza troppi affanni, approfittando di una città che, storicamente, non ha mai fatto sconti alle coalizioni guidate da Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia?
Andrea Tronzano, classe 1967, oggi assessore regionale al Bilancio e allo Sviluppo delle attività produttive nella giunta Cirio, rappresenta l’anima più esperta e “manageriale” del centrodestra torinese. Con oltre trent’anni di carriera politica, dal consiglio comunale alla Regione, Tronzano è il classico “politico tecnico”: solido, connesso con il tessuto industriale, capace di dialogare con gli imprenditori e di gestire i complessi meccanismi della macchina amministrativa. Rieletto nel 2024 con più di settemila preferenze, ha contribuito a portare avanti missioni economiche all’estero e a negoziare i dossier più delicati sui fondi per le imprese. Un profilo che piace a chi, nel centrodestra, cerca una figura rassicurante, credibile e con esperienza da spendere. Ma il suo limite, dicono i detrattori, è la poca capacità di scaldare i cuori dell’elettorato: un candidato “istituzionale” rischia di non accendere l’entusiasmo in una campagna elettorale che si preannuncia aspra e combattuta.
Ben diversa è la parabola di Maurizio Marrone, classe 1982, assessore regionale alle Politiche sociali e volto in forte ascesa di Fratelli d’Italia. Cresciuto nelle circoscrizioni torinesi, poi consigliere comunale e infine regionale, Marrone è un politico militante, capace di incarnare l’anima identitaria del partito di Giorgia Meloni. Le sue battaglie, spesso al centro di polemiche, lo hanno reso un personaggio divisivo ma di grande visibilità: dalle posizioni nette sulla famiglia tradizionale alle politiche sulla casa, fino ai progetti sui beni confiscati alla criminalità organizzata. È il candidato che polarizza: amato da chi lo sostiene, duramente criticato da chi lo osteggia. Per molti nel suo partito, però, rappresenta la scelta più coerente: un volto giovane, fortemente identitario, che potrebbe trasformare Torino in un laboratorio politico nazionale, portando la sfida direttamente sul terreno della contrapposizione ideologica.
Filippo Dispenza
Infine, c’è un nome che esce dai binari della politica tradizionale: Filippo Dispenza, prefetto in pensione, oggi commissario straordinario di Caivano dopo lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose. Una carriera impeccabile nelle forze dell’ordine — questore ad Alessandria e Cagliari, dirigente della Polizia di Stato — lo rende una figura di altissimo profilo istituzionale. La sua eventuale candidatura avrebbe il sapore della “carta civica”: un nome di rottura rispetto alle logiche di partito, in grado di attrarre quell’elettorato moderato che non si riconosce nei simboli e che guarda con favore a un profilo di legalità e rigore. La sua candidatura, però, avrebbe anche un’incognita: riuscirebbe un uomo delle istituzioni, poco avvezzo alle dinamiche elettorali, a reggere l’urto di una campagna politica che a Torino non concede tregua?
Tre nomi, tre opzioni, tre possibili strategie. Tronzano rappresenta la stabilità e la continuità amministrativa, il volto di chi conosce i numeri e le stanze del potere regionale. Marrone porta con sé l’identità politica più marcata, con la capacità di trasformare la corsa in una battaglia a tinte forti. Dispenza, infine, incarnerebbe la discontinuità, un volto nuovo capace di catalizzare consensi trasversali. Ma scegliere non sarà semplice: il centrodestra sa che Torino resta una città difficile, dove il centrosinistra ha radici profonde e dove Lo Russo, a metà mandato, mantiene ancora un profilo solido e una percezione positiva tra ampi settori della cittadinanza.
Il dilemma, dunque, è aperto: equilibrio con Tronzano, identità con Marrone o rottura con Dispenza? La decisione inciderà non solo sulla campagna elettorale, ma anche sulla tenuta della coalizione e sulla capacità di apparire come alternativa credibile. Perché a Torino la politica non è mai stata un esercizio astratto: conta quanto e più della Mole sulla skyline cittadina. E il nome che verrà scelto non deciderà soltanto le sorti di una sfida elettorale, ma anche l’immagine di un centrodestra che da troppo tempo rincorre la città senza riuscire a conquistarla.
Torino è una città che non smette mai di sorprendere quando si parla di urne. Nel 2016 è protagonista di una delle svolte più clamorose della politica italiana: l’arrivo del Movimento 5 Stelle alla guida di una delle capitali storiche del centrosinistra. Cinque anni dopo, nel 2021, la stessa città decreta la fine di quella stagione, riportando i democratici a Palazzo Civico con un successo netto. Due elezioni, due momenti storici, due climi politici completamente diversi che raccontano la metamorfosi di un elettorato disilluso, mobile e capace di ribaltare le previsioni.
Nel 2016, al primo turno, il sindaco uscente Piero Fassino parte con tutti i favori del pronostico. Forte di una coalizione di centrosinistra compatta, raccoglie 160.023 voti, pari al 41,8%. Un risultato solido ma non sufficiente a chiudere la partita. A sfidarlo al ballottaggio è Chiara Appendino, giovane esponente del Movimento 5 Stelle, che ottiene 118.273 voti (30,9%). In città aleggia la voglia di cambiamento: al secondo turno, quella spinta si trasforma in un’onda che travolge Fassino. Appendino conquista 202.764 voti, pari al 54,5%, contro i 168.880 del rivale. È una vittoria storica: per la prima volta, dopo oltre vent’anni di dominio del centrosinistra, Torino cambia colore politico. La sindaca grillina diventa simbolo di una stagione in cui i 5 Stelle sembrano capaci di sfidare i partiti tradizionali nelle grandi città.
Ma la luna di miele con i torinesi non dura a lungo. Anni difficili, segnati da crisi economiche, tensioni interne, gestione complessa dei conti e delle grandi questioni urbane, logorano il rapporto tra amministrazione e cittadini. Così, quando si torna al voto nel 2021, lo scenario è profondamente mutato.
Questa volta il centrosinistra si presenta con Stefano Lo Russo, docente universitario e capogruppo del PD in consiglio comunale durante la giunta Appendino. Al primo turno ottiene 140.200 voti, pari al 43,9%, staccando di misura il candidato del centrodestra, l’imprenditore del vino Paolo Damilano, fermo a 124.347 voti (38,9%). La candidata grillina Valentina Sganga, erede designata di Appendino, si ferma al 9%, segno di un Movimento in caduta libera.
Al ballottaggio Lo Russo non lascia scampo: 168.997 voti (59,2%) contro i 116.322 di Damilano (40,8%). È una vittoria netta, favorita anche dall’astensione record: al secondo turno vota appena il 42,1% degli elettori, uno dei dati più bassi nella storia. Il ritorno del centrosinistra viene interpretato come una bocciatura dell’esperienza grillina e, allo stesso tempo, come l’incapacità del centrodestra di sfondare in una città che da sempre fatica a concedergli spazio.
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