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Oggi le comiche. Riboldi dice a Schael “taglia l’intramoenia” e poi lo caccia perché l’ha tagliata

La delibera parlava chiaro: controllare la libera professione. Schael esegue, i primari insorgono, il Tribunale del lavoro li premia e la Regione scarica il suo stesso commissario

Salvate il soldato Schael. Cirio "cacci" Riboldi

Federico Riboldi e Thomas Schael

Voglio ritornare a parlare del “siluramento” del commissario della Città della Salute Thomas Schael per mano dell’assessore Federico Riboldi, che è colui che l’aveva fortemente voluto. Per la cronaca Schael è ancora al suo posto e se ne andrà (stando ai tam tam) solo se lo “licenzieranno”. Parliamo di “siluramento”, perché in questa storia l’unica sicurezza è che nel pubblico le parole che si scrivono non sempre sono quelle che si leggono, meno ancora sono quello che si dicono…

Tre, dicono, le colpe di Schael: avere rotto l’armonia del sistema, essersi sovraesposto mediaticamente e – udite udite – avere poca umiltà.
Tradotto: Schael è colpevole di non essersi inginocchiato davanti al circo della sanità piemontese. Colpevole di aver preteso che i medici facessero il loro lavoro in ospedale, colpevole di avere osato guardare dentro i bilanci, colpevole di avere acceso un faro su pratiche consolidate che arricchiscono pochi e penalizzano tanti compresi quei medici che scappano perchè gli ospedali sono in mano ai primari e qui guadagnano poco.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso?
Forse la scoperta che i conti non tornavano e che, nel consuntivo 2024, il disavanzo stimato non era di 41 milioni ma di 55 milioni. Il fatto che lui abbia chiesto un controllo esterno per scavare su dodici anni di contabilità. Il fatto che la Procura abbia avviato delle indagini… Macché. Tutto questo passa in secondo piano.

Il dito indice è puntato sul ricorso al Tribunale del lavoro vinto dalla federazione Cimo-Fesmed, che rappresenta i primari, la casta dorata della sanità: proprio loro che da anni, grazie all’intramoenia allargata, si sono rimpinzati di soldi come tacchini a Natale, lasciando ospedali pubblici deserti nel pomeriggio per correre a visitare pazienti a pagamento nelle cliniche private convenzionate.
Schael arriva, rompe il giocattolo, trova gli spazi e le stanze, non rinnova le convenzioni e dal 1° aprile dice “basta intramoenia allargata”: i medici devono restare nelle strutture pubbliche. Un taglio secco.
I primari imbufaliti assimilano, guardano esterrefatti, ricorrono in tribunale e vincono.

Condanna pesante: ripristino delle procedure ordinarie, pubblicazione del provvedimento negli ospedali per 30 giorni, pagamento di 6.600 euro di spese legali. Una batosta.
Ma Schael non fa come gli altri manager, non si chiude in un bunker. Il 9 agosto scrive ai sindacati: distensione, dialogo, tavoli comuni per programmare insieme riduzione delle liste e riordino della libera professione. Una mano tesa. Troppo. Perché la Regione aveva già deciso: Schael deve sparire. E infatti, due giorni dopo, l’11 agosto, arriva il comunicato di Riboldi.

 Invece di difendere il suo commissario, quello che lui stesso aveva incaricato, si schiera di fatto con i signori dell’intramoenia. 

Ora è chiaro. Se uno più uno fa due, la matematica non mente: Riboldi ha scelto di stare dalla parte di Cimo e non se ne capisce il motivo considerando che  quasi tutte le altre organizzazioni sindacali hanno mantenuto fiducia in Schael. 

Ma c’è un’altra verità ed è ancora più grottesca. Perché tutto quello che Schael ha fatto non se l’era inventato. Era scritto nella sua delibera di nomina a commissario. E Schael non era stato nominato direttore perché la Città della Salute – essendo clinica universitaria – richiedeva un accordo con l’Università che non c’era.
E allora Riboldi cosa fa? Fa scrivere una delibera corposa per giustificare il commissariamento. E cosa si legge? Che il commissario deve far quadrare i conti, ridurre le liste d’attesa e – soprattutto – “assicurare il corretto ed equilibrato rapporto tra attività istituzionale e libera professione, con divieto che quest’ultima superi la prima.”
Non solo. Scrive anche che “la libera professione va verificata dalla direzione e, se necessario, sospesa…”.

In altre parole: Schael ha fatto esattamente quello che Riboldi gli aveva chiesto e pure scritto nero su bianco. Fa ridere – amaramente – ma è stato cacciato per aver rispettato il suo mandato. Non è geniale?

E allora lo chiediamo a lui, a Riboldi. Che cosa si aspettava? Che Schael facesse finta di niente, che lasciasse correre, che recitasse la parte del commissario-parafulmine buono solo a firmare carte? Che sorridesse alle telecamere, inaugurando padiglioni, mentre sotto i tappeti si accumulavano milioni di deficit? Come può, oggi, stupirsi che il clima s’è rotto se è stato proprio lui a dire a Schael di rompere con i primari?

La morale? Schael ha fatto il suo dovere. Ha toccato i soldi, i bilanci, i privilegi. Ha messo i cittadini davanti ai primari. Ha scelto la trasparenza invece del compromesso. E per questo Riboldi lo vuole cacciare. Con l’avallo di chi, in questa sanità malata, preferisce ospedali pubblici deserti e cliniche private piene.

Ai cittadini resta la certezza che il siluramento di Schael non è una vittoria per la sanità, ma l’ennesima sconfitta. Un messaggio chiaro: chi tocca i privilegi paga. E i pazienti? Restino pure in lista d’attesa. Tanto, a pagamento, un posto da qualche parte si trova sempre. Basta avere il portafoglio giusto.

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