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Lo Stiletto di Clio
20 Agosto 2025 - 18:01
Il designer brasiliano Cicero Moraes
In questa torrida estate che volge al termine, l’annuncio di nuove ed eclatanti scoperte sulla Sindone ha suscitato grande scalpore mediatico. Non sembra casuale che la notizia sia stata diffusa mentre a Saint Louis, nel Missouri, si svolgeva un importante congresso di sindonologia. Stando al designer brasiliano Cicero Moraes, il lenzuolo di Torino sarebbe un falso di epoca medievale che un anonimo personaggio avrebbe realizzato sovrapponendo un telo sul modello artefatto di un uomo crocifisso. Più precisamente, confrontando le tracce risultanti dal contatto di un tessuto con un corpo umano tridimensionale e con un bassorilievo, il designer sostiene che le impronte, nel primo caso, presentano significative deformazioni, mentre i segni prodotti dal bassorilievo sarebbero più coerenti col modello d’immagine della Sindone.
Acquaforte che ritrae la prima ostensione torinese della Sindone, 12 ottobre 1578
San Carlo Borromeo e la Sindone, opera secentesca di Giacomo e Giovanni Andrea Casella, chiesa di San Carlo, Torino
Fulmineamente rilanciata dal circuito mediatico di tutto il mondo, la notizia, in realtà, non esiste. Non a caso, alcuni parlano di bufala. Rifacendosi al fisico statunitense Richard Feynman (1918-1988), Premio Nobel nel 1965, il Centro internazionale di studi sulla Sindone (Ciss) ha replicato che, «quando si effettua un esperimento, bisogna riferire tutto ciò che potrebbe invalidarlo e non soltanto quel che sembra corretto, nonché le altre cause che potrebbero originare gli stessi risultati». In termini differenti, occorre «riferire tutti i punti superati con precedenti esperimenti e cosa sia avvenuto di nuovo»: «la teoria, una volta completata, deve quadrare anche con altri fenomeni». E, «ça va sans dire», non è affatto il caso in questione.
La vicenda, però, riflette il grande interesse che continua a suscitare la Sindone, fra studi rigorosi e notizie sensazionalistiche, devozione popolare e stranezze del Web. Com’è noto, la reliquia giunse in Piemonte nel 1578. Il duca Emanuele Filiberto di Savoia la fece trasferire da Chambéry a Torino allo scopo di abbreviare il viaggio che Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, desiderava compiere a piedi per venerarla, dopo la terribile pestilenza del 1576. Il duca intendeva così rendere omaggio all’illustre prelato, ma anche consolidare il prestigio della città, divenuta capitale degli Stati sabaudi non molti anni prima.
Nell’ottobre 1578 San Carlo fece sosta anche a Settimo Torinese, non in paese, ma presso la località Rivo Martino, dove attualmente la strada di Mezzi Po si diparte dalla provinciale per Chivasso. Lo documenta un testimone dell’epoca, il gesuita genovese Francesco Adorno (1533-1586), che accompagnò l’arcivescovo di Milano, lasciandoci un prezioso diario.
Il pellegrinaggio del cardinale Borromeo fu programmato nei minimi particolari. «Le strade da seguire – sintetizza don Pietro Gauzolino, parroco di Sant’Antonino dal 1951 al 1989 e appassionato di storia piemontese, il quale studiò a fondo la questione – erano stabilite in precedenza e indicate da un incaricato del duca [di Savoia], così le soste preordinate con cibo e alloggio. Il criterio dato da San Carlo era quello di evitare i paesi, specialmente i più grandi. Il Pingonio [si tratta di Emanuele Filiberto Pingone che nel 1581 pubblicò l’opera “Syndon Evangelica”] dice che si evitò di passare da Chivasso proprio perché erano predisposti splendidi apparati in onore dell’arcivescovo. E soggiunge che San Carlo preferiva passare per i boschi e i luoghi deserti piuttosto che per i paesi».
Di buon mattino, i pellegrini partirono da Vercelli, città nella quale, giungendo da Novara e Milano, avevano trascorso la notte. Verso sera, stremati dalla fatica, arrivarono a Cigliano. Il giorno seguente, prima dell’alba, si rimisero in marcia. La tappa successiva fu al Rivo Martino, tra Brandizzo e Settimo, dove esisteva il priorato di San Lorenzo, allora dipendente da Santa Maria di Vezzolano. Stando a testimonianze di poco posteriori, il priorato versava in pessime condizioni. Nel settembre 1584 il canonico Giovanni Battista Cavoretto osserverà che la chiesa restava aperta giorno e notte poiché mancavano le porte. L’altare era in rovina, il tetto non esisteva più e l’intonaco cadeva a pezzi.
Quel giorno di ottobre, presso il Rivo Martino, ad attendere il cardinale Borromeo si trovavano l’arcivescovo di Torino, Gerolamo della Rovere dei signori di Vinovo, con alcuni canonici e sacerdoti. Fu preparato un frugale pranzo. «Siccome non c’erano scranni per tutti – aggiunge don Pietro Gauzolino – si sedettero per mangiare solo il cardinale Borromeo, l’arcivescovo e qualche canonico. Gli altri rimasero in piedi».
Subito dopo, nella cappella di San Lorenzo furono recitati i vespri. Al termine l’arcivescovo della Rovere partì alla volta della città per avvisare il duca di Savoia dell’imminente arrivo del cardinale. A piedi, alla volta di «Turino, che restava otto miglia discosto», come scrisse padre Adorno, s’incamminò anche San Carlo. Quindi l’arcivescovo della Rovere, tornato indietro sulla strada di Settimo, incontrò nuovamente il cardinale a circa un chilometro e mezzo dalla capitale sabauda. Nel frattempo giunse un drappello di soldati a cavallo per scortare i pellegrini. Il duca Emanuele Filiberto e il figlio Carlo Emanuele accolsero San Carlo nei pressi della Porta Palatina, fra i rintocchi a festa delle campane e le salve di artiglieria.
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