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Cronaca
19 Agosto 2025 - 16:03
Detenuto murato vivo da tre anni nel carcere di Torino. “Una vergogna per la Repubblica”
Un detenuto di 73 anni, da tre anni, vive praticamente “murato” nella sua cella nel carcere Lorusso e Cotugno di Torino. Una vicenda che ha dell’incredibile e che pure si svolge nell’indifferenza generale dentro un istituto penitenziario che più volte è stato al centro delle cronache per sovraffollamento, suicidi e condizioni disumane di detenzione.
L’uomo, originario della Calabria, è da tempo in preda a gravi disturbi psichiatrici e ha trasformato la sua cella in un rifugio claustrofobico, sigillando pareti e finestrella con carta stagnola e colla, lasciando aperta solo una minuscola feritoia del blindo da cui entra appena un filo d’aria.
Non esce mai, se non in rare circostanze legate a trattamenti sanitari obbligatori, e rifiuta ogni contatto con l’esterno.
Ha una fobia ossessiva per la polvere, tanto da lavare i pomodori con detersivo per i panni, eppure nella cella regna un odore nauseabondo, segno evidente di un degrado che stride con la sua mania di pulizia. Un paradosso che diventa metafora della follia e della solitudine di chi si perde dentro le maglie di un sistema che non sa come gestire le fragilità.
Il caso è stato reso pubblico da Filippo Blengino, segretario nazionale di Radicali Italiani, dopo una visita all’interno del penitenziario torinese insieme a una delegazione del partito e a rappresentanti di Azione. Lo hanno visto, ne hanno raccolto la storia, e hanno deciso di trasformare quella cella sigillata in un grido politico. “È una condizione indegna, disumana e degradante – ha dichiarato Blengino – ed è altrettanto indegno che lo Stato lo abbia abbandonato a questa sorte. Una situazione che rende indegno anche il lavoro della polizia penitenziaria e degli altri detenuti costretti a convivere con qualcosa di intollerabile. In anni di visite nelle carceri italiane non avevamo mai visto nulla di simile”. Da qui la decisione di scrivere immediatamente al ministro della Giustizia Carlo Nordio, al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e alla Garante regionale. Non una denuncia qualsiasi, ma la richiesta di un intervento urgente, perché quello che accade a Torino non è solo un problema di carcere: è uno scandalo per l’intera Repubblica.
La vicenda ha già varcato le mura del penitenziario e si prepara ad arrivare in Parlamento. Riccardo Magi, segretario di +Europa, presenterà un’interrogazione a Nordio chiedendo spiegazioni e soprattutto soluzioni. “Abbiamo visto un uomo letteralmente murato vivo – hanno spiegato Magi e Blengino – un uomo che non esce da anni, che non ha accesso alla doccia, che versa in condizioni psichiatriche palesemente incompatibili con la detenzione. Quello che abbiamo visto è indegno, disumano e degradante. Non è più solo un caso penitenziario, è una vergogna nazionale”.
A fianco dei Radicali, anche Azione ha voluto sottolineare l’emergenza delle carceri, ricordando come proprio a Torino, nei giorni scorsi, un detenuto si sia tolto la vita: il cinquantacinquesimo suicidio dall’inizio dell’anno nelle prigioni italiane. “Lo Stato deve dimostrare la sua civiltà anche attraverso il trattamento dei più vulnerabili – ha affermato Giacomo Prandi, vicesegretario regionale di Azione – non possiamo più ignorare queste emergenze. Servono misure strutturali, alternative alla detenzione, supporto psicologico e programmi di reinserimento. Altrimenti continueremo a contare morti e casi disumani come questo”. Una denuncia che si intreccia con quella di Cristina Peddis, della segreteria provinciale del partito, che ha puntato il dito contro la carenza cronica di psicologi, educatori e operatori sociali, figure indispensabili per affrontare la fragilità dei detenuti e prevenire derive come quella del 73enne. “Abbiamo visto celle e spazi comuni – ha dichiarato – e dobbiamo denunciare con forza l’assenza di personale adeguatamente formato, il sovraffollamento cronico, la mancanza di percorsi individualizzati. Tutto questo annienta ogni possibilità di umanizzazione della pena”.
La storia del detenuto “murato” diventa così simbolo di un sistema al collasso. L’Italia ha un problema enorme con le carceri: strutture sovraffollate, personale ridotto all’osso, mancanza di investimenti seri sulla salute mentale dei reclusi. Dentro le celle finiscono persone che non dovrebbero nemmeno essere lì, come nel caso di chi soffre di patologie psichiatriche gravi. Invece di cure e percorsi alternativi, ricevono isolamento, degrado, abbandono. Una spirale che nega non solo i diritti sanciti dalla Costituzione, ma anche ogni principio di civiltà.
Il paradosso è tutto racchiuso in quella cella sigillata con la stagnola: la paura della polvere che si trasforma in prigionia totale, l’ossessione per la pulizia che convive con il fetore dell’abbandono, la volontà di difendersi dal mondo che diventa una condanna a marcire soli, invisibili, dimenticati. L’immagine di quell’uomo di 73 anni, barricatosi nel suo angolo di follia, dovrebbe scuotere le coscienze ben oltre le mura del “Lorusso e Cotugno”. Invece rischia di restare l’ennesimo episodio da archiviare sotto la voce “emergenze carcerarie”. Ma qui l’emergenza non è più solo penitenziaria: è politica, sociale e civile. Perché un Paese si misura anche da come tratta i suoi ultimi. E se un uomo viene lasciato a vivere murato vivo in una cella, significa che qualcosa, nel cuore della Repubblica, si è spezzato.
“La prigione è fatta di muri… prima li odi, poi ti abitui, e alla fine non riesci più a farne a meno. Questa è l’istituzionalizzazione.” Così parlava Red in Le ali della libertà, film che ha saputo raccontare meglio di chiunque altro il paradosso della vita dietro le sbarre. Ma se in quel capolavoro c’era almeno lo spazio per la speranza, nelle carceri italiane la realtà è ben più cupa: qui non c’è redenzione, non c’è ricostruzione, non c’è via d’uscita. C’è solo un collasso silenzioso, fatto di sovraffollamento, suicidi, degrado e follia abbandonata a se stessa.
Il caso del detenuto murato vivo nel carcere di Torino è la fotografia più spietata di questo fallimento. Un uomo di 73 anni, malato, fragile, con disturbi psichiatrici evidenti, lasciato per tre anni a vivere in una cella sigillata con carta stagnola e colla, senza mai uscire, senza mai lavarsi, prigioniero delle proprie ossessioni e dell’indifferenza dello Stato. Una vicenda che sembra scritta da un regista del cinema dell’assurdo, e invece è realtà quotidiana. Possibile che nessuno, in tutto questo tempo, abbia trovato il coraggio o la capacità di fermare questa indecenza? Possibile che per sollevare lo scandalo servisse la visita dei Radicali? Ma questa è l’Italia: ci si indigna a intermittenza, solo quando il degrado diventa troppo evidente per essere ignorato.
Nel frattempo le statistiche parlano da sole: 55 suicidi dall’inizio dell’anno, una media da pena di morte mascherata. Le carceri traboccano: 60 mila detenuti stipati in spazi pensati per molti meno, con una densità che annienta ogni idea di dignità. Mancano psicologi, mancano educatori, mancano programmi di reinserimento. Il personale della polizia penitenziaria lavora allo stremo, con turni impossibili e aggressioni continue. E la politica? Continua a recitare il solito copione: convegni, promesse, riforme mai attuate. Un teatro stanco in cui il finale non cambia mai.
L’articolo 27 della Costituzione stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione. Parole solenni, scolpite come un orgoglio civile. Ma nelle nostre prigioni la rieducazione non è che una barzelletta amara. Invece di costruire percorsi, si lasciano marcire persone. Invece di curare, si abbandona. Invece di dare un futuro, si chiude la porta e si spegne la luce. Le carceri italiane non sono più luoghi di giustizia, ma discariche sociali dove gettare gli scarti di una società incapace di occuparsene.
Il caso di Torino è più di una denuncia: è una condanna allo Stato stesso. Perché un Paese che si dice civile non può tollerare un uomo murato vivo in una cella. Non può tollerare decine di suicidi ogni anno. Non può continuare a fingere che questo non sia un problema di tutti. Ogni detenuto abbandonato alla follia, ogni suicidio ignorato, è una macchia sulla coscienza collettiva. È il segno che i muri del carcere non sono lì per contenere i reati, ma per nascondere le vergogne di una Repubblica che non vuole guardarsi allo specchio.
Le carceri italiane non rieducano, non proteggono, non riparano. Sono macchine arrugginite che producono degrado, alienazione e disperazione. E ogni giorno che passa senza una vera riforma, senza coraggio politico, senza l’assunzione di responsabilità, quelle mura si alzano un po’ di più, non solo attorno ai detenuti, ma attorno all’intera società. Perché alla fine, come nel film, i muri ti cambiano: ma qui non si tratta di abituarsi. Qui si tratta di marcire.
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