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Bruno Mellano se ne va, ma non si piega. In Piemonte le carceri scoppiano, e la politica sceglie la propaganda

Al suo posto una penalista mai entrata in carcere: scelta politica, zero esperienza.

Bruno Mellano se ne va, ma non si piega. In Piemonte le carceri scoppiano, e la politica sceglie la propaganda

Bruno Mellano

Davanti al portone di Palazzo Sormani Tournon, sede del Consiglio regionale del Piemonte, Bruno Mellano sorride per l’ultima volta da Garante regionale delle persone private della libertà. È una di quelle immagini che raccontano più di mille parole. Accanto a lui c’è Monica Formaiano, penalista alessandrina, appena nominata dalla giunta Cirio per prendere il suo posto. Uno scatto in apparenza formale, come tanti altri nella liturgia istituzionale. Ma lo sguardo di Mellano, e le parole che lo accompagnano, raccontano tutta un’altra storia: «Garante che viene e garante che va, tentando sempre di essere autorità di garanzia autonoma e indipendente, dentro e fuori dal Palazzo». Una frase che sa di commiato ma anche di monito. Perché quel che resta dopo undici anni di mandato non è una semplice eredità burocratica: è un’idea di giustizia, di legalità, di civiltà giuridica.

Eppure, quel congedo sereno è stato preceduto da settimane velenose. In Consiglio regionale, Fratelli d’Italia ha preferito salutare l’uscita del Garante con una vera e propria aggressione politica. I capigruppo Carlo Riva Vercellottie Roberto Ravello non si sono limitati a criticare, ma hanno pubblicamente bollato l’operato di Mellano come un caso di “strabismo ideologico”, accusandolo di essersi occupato solo dei detenuti, con “scarsa attenzione” verso il personale penitenziario. Come se il suo mandato non fosse scritto nero su bianco in una legge regionale che prevede una sola priorità: la tutela dei diritti delle persone private della libertà. Come se stare dalla parte dei più fragili fosse, in sé, un atto ideologico.

A rispondere, con rara lucidità e sarcasmo, è stata la Camera Penale del Piemonte occidentale e Valle d’Aosta, che ha pubblicato una nota intitolata “Lacrima d’estate”, dove con ironia affilata viene ribaltato ogni punto dell’accusa: «La colpa di Mellano? Aver provato a difendere i diritti dei detenuti. Una scelta così folle da portarlo perfino a costituirsi parte civile in alcuni processi in cui le guardie erano imputate per abusi».

E ancora: «Chiediamo scusa a Bobbio, Galante Garrone, Cordero e a tutti i giuristi che hanno fatto del Piemonte una terra di diritto per aver permesso che oggi nel Consiglio regionale sieda chi del diritto non sa nulla e nemmeno ha la creanza di tacere».

Non è solo uno sfogo. È una denuncia civile, che chiama le cose con il loro nome: l’ignoranza, quando indossa la fascia tricolore, diventa pericolosa.

Eppure, questo attacco arriva in un momento in cui il sistema carcerario piemontese è al collasso. I numeri sono impietosi: oltre 4.900 detenuti a fronte di una capienza ufficiale di 3.492 posti. Un tasso di sovraffollamento che supera il 140% in istituti come Torino Lorusso e Cutugno, dove si vive in sei, sette, otto per cella, con letti a castello a tre piani, bagni senza separazione, assenza di spazi per la socialità. A Ivrea, Cuneo, Biella, la situazione è altrettanto grave. Eppure la narrazione politica prevalente continua a ignorare la realtà dei numeri, preferendo giocare con gli slogan: “certezza della pena”, “sicurezza”, “durezza”.

Il recente rapporto Antigone – presentato poche settimane fa a Torino, proprio in Regione – ha documentato l’emergenza in modo sistematico: strutture vetuste, carenze di organico tra gli agenti, carenze drammatiche di personale sanitario, tempi di accesso alle cure infiniti, diffusione di disturbi psichici senza assistenza adeguata, crescita del disagio giovanile. Solo nel 2024, fino a oggi, 16 persone si sono tolte la vita dietro le sbarre in Piemonte. La maggior parte erano in isolamento, molti con precedenti tentativi. Alcuni avevano meno di trent’anni. Alcuni, nessuna condanna definitiva. Queste morti sono state registrate, archiviate, silenziate.

Bruno Mellano ha attraversato questi luoghi per oltre un decennio. Non è stato un garante da scrivania: ha camminato nei corridoi, è entrato nelle celle, ha parlato con chi vive, lavora e sopravvive dentro il carcere. Ha ascoltato i familiari, ha scritto relazioni, ha fatto nomi e cognomi, ha denunciato ritardi, omissioni, abusi. Eppure, alla fine, viene congedato senza ringraziamenti istituzionali, ma con insulti in Aula. Perché il garantismo, in tempi di populismo, è diventato una colpa. Difendere i diritti di chi sta dentro – anche se ha sbagliato – è diventato sospetto. E chi crede nella Costituzione viene derubricato a “ideologo”.

La nomina di Monica Formaiano, sebbene formalmente legittima, è il simbolo perfetto di questa deriva. Penalista esperta, ma priva di qualunque esperienza diretta con il sistema carcerario, come da lei stessa ammesso: «Non ho mai messo piede in un istituto penitenziario, ma sono affascinata dal tema». Una dichiarazione che, in qualunque altro contesto, avrebbe suscitato perplessità. Invece, è bastata per conquistare i voti della maggioranza. A candidarsi, tra gli altri, c’erano ben nove ex garanti comunali con curriculum solidi, e 24 garanti territoriali avevano firmato un appello chiedendo un metodo trasparente, basato sull’esperienza. Ma la politica ha deciso diversamente.

In Aula, le opposizioni si sono schierate compatte. Il Movimento 5 Stelle, con Sarah Disabato e Pasquale Coluccio, ha parlato di «attacco ingiustificato, scorretto e fuori da ogni logica». Azione, con Giacomo Prandi, ha definito la nomina «opaca e discutibile». Europa Radicale, con Igor Boni e Giulio Manfredi, ha denunciato apertamente l’intento politico: «La destra attacca Mellano per svuotare di senso il ruolo del Garante e trasformarlo in uno strumento di propaganda securitaria». Anche Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, ha detto con chiarezza: «I Garanti sono figure indipendenti, non rispondono ai partiti. Mellano ha esercitato con dignità e coraggio il suo ruolo. Il resto è populismo penale e mediatico».

In questo quadro, fa ancora più impressione il silenzio delle istituzioni centrali. Il Ministero della Giustizia tace, il Consiglio regionale evita ogni riflessione pubblica sulla condizione delle carceri, e la maggioranza si trincera dietro l’equilibrismo verbale: “ci occuperemo di tutti, anche degli agenti”. Ma come si può pensare che i problemi si risolvano ignorandone la radice? Come si può credere che basti un cambio di nome per cancellare anni di impegno, denunce, proposte?

Detto tutto questo Bruno Mellano, anche in uscita, rimane fedele al suo stile: nessuna recriminazione, nessuna vendetta, nessuna polemica personale. Rivolge un saluto civile alla sua successora: «Buon lavoro a Monica Formaiano, con la consapevolezza che la comunità penitenziaria è fatta di detenuti e detenenti. Il mandato, per quanto oneroso e spesso ingrato, è chiaro». E lascia in eredità una linea netta: la garanzia non è mai una concessione, ma un dovere costituzionale.

Per chi conosce la realtà delle carceri piemontesi, questo non è solo un cambio di casella nel manuale delle nomine. È uno spartiacque culturale. O si resta ancorati al diritto, alla legalità, alla dignità umana. Oppure si scivola nell’equidistanza vuota, nel garantismo annacquato, nel formalismo burocratico. Il carcere è un luogo che racconta lo stato di salute della nostra democrazia. E oggi, in Piemonte, questo racconto fa paura.

Mellano ha scelto di non gridare. Ma le sue parole, ora, pesano più di mille comizi. Perché in fondo non si tratta solo di chi ha lasciato l’incarico. Si tratta di che idea abbiamo della giustizia. E soprattutto, di quale società vogliamo essere.

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