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Cesarina Nigra de ʼl Zerb di San Giusto Canavese. Mamma coraggio nella guerra contro i tedeschi

Memorie di Giuseppe Cantello raccolte da Rosanna Tappero. Il coraggio silenzioso di una donna di San Giusto che, con intelligenza, audacia e amore, affrontò i soldati tedeschi per difendere la memoria della sorella e proteggere i suoi nipoti dalla rappresaglia. Riproduzione del testo per gentile concessione dell'editore Baima e Ronchetti

Cesarina Nigra de ʼl Zerb di San Giusto Canavese. Mamma coraggio nella guerra contro i tedeschi

La chiesa nel cuore di San Giusto. Il comando tedesco stazionava proprio a centro paese.

La guerra imperversava ovunque e San Giusto, per la sua posizione strategica, si trovava in una zona calda. Nelle cartine geografiche dei tedeschi accanto al nome del paese era segnato in rosso «Achtung! Achtung!» cioè «Allarme!».
Continui erano i rastrellamenti con lo scopo di stanare e catturare i giovani che non si erano presentati alle armi, destinati ai campi di concentramento. Il clima era rovente e nella zona agivano contemporaneamente tedeschi, fascisti e partigiani per la resistenza.

Dai loro informatori, i tedeschi sapevano dove abitavano i giovani renitenti alla leva e improvvisamente arrivavano nelle loro case, sperando di trovarne qualcuno nascosto.

Quando irruppero nella casa di tre fratelli renitenti trovarono soltanto il padre anziano, seduto sul tronco di legno davanti alla casa, con il solito mozzicone di sigaro in bocca. Dei fratelli, nessuna traccia. Interrogato, l’anziano spiegò in dialetto che lui era vedovo da tanto tempo e viveva di stenti; i suoi figli, per procurarsi da vivere, andavano a lavorare in terreni e in cascinali anche lontani. Affermò di non conoscere dove si trovavano, né quando sarebbero tornati.

Cesarina Nigra con il figlio Giuseppe Cantello.

Cesarina Nigra con il figlio Giuseppe Cantello.

In realtà, avvisati per tempo, i fratelli si erano allontanati dalla casa per rifugiarsi altrove. I soldati non credettero per nulla alle parole dell’anziano e minacciarono di bruciare la casa se i giovani non si fossero consegnati il giorno successivo al Comando tedesco, stanziato nella piazza del paese.

In un batter d’occhio, con un veloce passaparola di casa in casa, le minacce vennero fatte arrivare, tramite amici, parenti e conoscenti, alle orecchie dei giovani ricercati. I tre, valutando la situazione, pensarono che fosse meglio rischiare di non avere più una casa piuttosto che essere deportati e, dunque, continuarono a rimanere nascosti.

Io c’ero, ho visto e sentito

I tedeschi interrogarono anche alcuni zii, che risposero di non sapere nulla. In verità, questi zii già in precedenza si erano sempre adoperati in tutti i modi per sostenere i nipoti in balìa di loro stessi. Per loro, quei tre giovani, anche se grandicelli, rimanevano sempre masnè. Per proteggerli, rischiarono l’incendio della loro casa e, sempre tramite voci di paese, li avvisarono di rimanere nascosti.
Altri zii vennero interrogati dai tedeschi e corsero il rischio di essere presi come ostaggi e liberati solo se i giovani si fossero consegnati. Questi zii – zio Giorgio Nigra e zia Nota, che abitavano in vicolo Castelletto, cantone Ozzello − vennero avvisati che i militari stavano per arrivare, poiché già erano stati nell’abitazione di fronte a loro, per fare domande allo zio Antonio.
Presi alla sprovvista, zio Giorgio e zia Nota pensarono ad un luogo sicuro per rifugiarsi, e decisero di nascondersi sotto le fascine di legna, nel sottotetto dell’abitazione. Ma ahimè! Io ero presente e la cosa doveva essere decisa a mia insaputa poiché, a soli sei anni di età, se interrogato potevo sbagliare a rispondere preso da paura o agitazione. Per i miei zii rappresentavo un rischioso pericolo.

La famiglia Nigra: cinque sorelle e un fratello fanno da corona a Domenica Foglia vedova Nigra, detta granda Nota al centro seduta. Maria Nigra è la prima a destra.

La famiglia Nigra: cinque sorelle e un fratello fanno da corona a Domenica Foglia vedova Nigra, detta granda Nota al centro seduta. Maria Nigra è la prima a destra.


Ormai era troppo tardi per i ripensamenti e non avendo altra soluzione, mio zio, con tono serio, mi disse che se fossero arrivati i tedeschi io non dovevo guardare verso il loro nascondiglio.
Sentivo su di me una forte responsabilità nei loro confronti, e una grande carica di tremarella.

Poco dopo arrivarono due giovani militari con mitra, mi impressionarono molto. Da come parlavano intuii che si trattava di un italiano e di un tedesco. In casa trovarono solo la nonna materna e me, che mentimmo, affermando che gli zii, essendo agricoltori, si trovavano in qualche loro campo a lavorare la terra.

I militari non prestarono fede alle nostre parole e mia nonna venne incaricata di comunicare agli zii, e a chiunque li proteggesse, di consegnare i tre fratelli al Comando, altrimenti avrebbero incendiato anche la loro casa.
Poiché i tre fratelli continuavano la latitanza, noi tutti per precauzione e per paura, passammo la notte nascosti e infreddoliti in mezzo al grano nei campi della zona. Qui sentivamo passare nelle vicinanze sia i tedeschi che i partigiani. Ogni tanto si sentiva sparare lungo la strada comunale San Giorgio - San Giusto che arriva in via Lusigliè, un tempo detta strà cita, ovvero piccola. Quella notte venne uccisa una persona di San Giusto (Zôbe). Io tremavo continuamente e avevo la pelle d’oca sia per il freddo che per la paura.

Al mattino seguente le nostre case non vennero incendiate. Nonostante il pericolo scampato, capii di essere nato sotto una cattiva stella visto che in precedenza ero già stato sotto i bombardamenti a Torino, dove abitavo nella zona di Porta Nuova.
Dopo lo sfollamento, ero stato consegnato ai miei zii a San Giusto, per poter vivere più tranquillamente, invece i cattivi eventi mi perseguitavano. Mi trovavo sempre al momento sbagliato nel posto sbagliato.

Più tardi fu dato l’ordine di bruciare la casa dei tre fratelli, visto che non si erano consegnati nel tempo concesso. Don Scapino, che allora era il parroco, e il podestà del paese, si mobilitarono per evitare l’incendio. I tedeschi in questo caso non vollero fare favoritismi: la latitanza dei tre fratelli non poteva restare impunita.

Mia madre, Cesarina Nigra, classe 1914, lavorava a Torino come factotum per conto dei Ceratto, ricchi proprietari di immobili provenienti da Vidracco. Possedevano la casa di cura Sanatrix in viale Thovez, la famosa Villa Liberty in corso Trento angolo via Galliano, zona Crocetta. L’ingegner Ceratto sposò l’attrice Caterina Boratto. Mia mamma lavorava in una delle loro case in Torino, costruita allora dall’impresa Bassino di Montanaro presso la quale mio padre era muratore.
Per lei era un impiego non facile: doveva far rigare dritto ragazzi, avventori, sciacalli, male intenzionati e gli inquilini che non rispettavano il rigoroso regolamento della casa, appeso alle pareti del piano terra.

Avendo i requisiti giusti, svolgeva anche la mansione di aiuto amministratore, ritirando i soldi di affitto e riscaldamento. Era una donna dalle molteplici qualità: passava dal lavoro intellettuale a quello manuale e si occupava anche del funzionamento della caldaia a carbone. È probabile che lei discenda dal ceppo avito del politico e diplomatico Costantino Nigra.

I Ceratto avevano in gestione anche la linea dei pullman, allora dette «corriere». Nonostante i guasti meccanici, riparati puntualmente durante la notte, erano sempre in grado di partire il mattino in perfetto orario. La premessa sui Nigra vuole sottolineare che mia madre era una persona dotata di così tanto coraggio e audacia da riuscire nell’impresa là dove un parroco e un podestà avevano fallito.

Quel giorno, percorrendo in bicicletta la strada Cebrosa, una scorciatoia, arrivò a San Giusto, ansimante e stanca, in tarda mattinata. Si tenga presente che nel pomeriggio doveva ritornare a Torino.
Quando le venne raccontato che i suoi nipoti erano scappati per sfuggire alla deportazione, lei, in memoria della sorella, si sentì in obbligo di giocare un’ultima carta. A Torino, dove lei lavorava come custode, abitava una famiglia di tedeschi, i Karaus, con i quali era in ottimi rapporti.

L’idea era quella di chiedere loro di intercedere presso i loro connazionali perché non bruciassero la casa della defunta sorella. Dopo una breve consultazione con il fratello Giorgio e la cognata Nota, che le sconsigliarono vivamente di mettersi in pericolo, lei decise ugualmente di provare.

Lasciò dal fratello la bicicletta per non farsela requisire, si diresse coraggiosa in strada, ma si accorse che questa era deserta. Pensò che se avesse incontrato nazisti o fascisti, nell’interrogarla questi le avrebbero fatto perdere troppo tempo e lei non sarebbe più riuscita nel suo urgente intento. Così dopo aver percorso il tratto di vicolo Castelletto, ritornò indietro, escogitando un piano strategico.

Si servì allora di me. Mi prese con sé per simulare una passeggiata. Chi avrebbe mai sospettato di una mamma che porta a spasso il suo innocente bambino? Arrivammo sani e salvi davanti alla casa che doveva essere bruciata. Ricordo ancora il cancello metallico color verde dell’entrata. All’interno dell’abitazione c’erano dei militari che chiacchieravano e ridevano di gusto. Saranno state circa le 14 e probabilmente avevano pranzato da poco, bevendo qualche bicchiere di vino di troppo. Mia madre per precauzione mi accompagnò a casa di una famiglia amica, confinante nell’omonimo vicolo con la casa dove siamo nati sia io che mio padre.

Dopo avermi messo al sicuro, si diresse frettolosa verso il cancello e entrando vi trovò alcuni militari seduti e altri in piedi che fumavano. Riporto il suo racconto, che lei mi fece quando finalmente venne a riprendermi nel tardo pomeriggio.

Uno dei soldati la accompagnò ad un tavolo: c’erano un ufficiale, forse un tenente o un capitano, e un suo sottoposto. I militari, con stupore, la invitarono ad entrare. Erano giorni che cercavano dei parenti dei tre giovani latitanti, ma fino a quel momento nessuno aveva avuto il coraggio di farsi avanti.

Io, dopo due ore di assenza di mia madre, incominciai a preoccuparmi. Raramente da bambino piangevo. Quella volta andai davvero vicino allo scoppiare in lacrime. La situazione era proprio drammatica per una donna sola in balia di uomini senza scrupolo, poteva succedere di tutto.

Mi preparai psicologicamente a non riabbracciare mai più mia madre o a vederla tornare con vestiti strappati e lividi ovunque. Nel mezzo dei miei brutti pensieri la vidi arrivare tranquilla e sorridente. «La casa non dovrebbero più incendiarla». Si sedette accanto a me e mi spiegò come mai l’avevano trattenuta così tanto tempo.
Con fare gentile e rispettoso verso una donna, l’ufficiale e il suo sottoposto la interrogarono, aspettandosi risposte soddisfacenti e veritiere. Fu proprio questo forse il motivo per cui mia madre venne ascoltata. Lei era abituata a difendersi dal mondo. Parlava correttamente l’italiano, aveva frequentato la scuola elementare fino alla sesta, con il maestro Marco, cercò così di impietosire quegli uomini presenti nella stanza, raccontando loro la triste storia di questa famiglia.

Il racconto della mamma ai tedeschi

«Sono la più giovane di cinque sorelle. Abbiamo avuto una vita dura e sofferta perché nostro padre è morto quando aveva solo 54 anni. Abbiamo dovuto rimboccarci le maniche, per vivere. Il nostro mestiere è stato prevalentemente l’agricoltura, il faticoso lavoro nei campi, con animali da stalla e tanto lavoro manuale.
La madre dei tre ragazzi che cercate era mia sorella Maria, ed essendo deceduta anche lei in giovane età, i ragazzi si sono ritrovati da soli, allo sbaraglio, in balìa di se stessi, con un padre non in grado di accudirli. Adesso continuano ad avere problemi con la guerra e sono bisognosi di aiuto e comprensione per continuare la loro vita.
A Torino, nella casa dove io presto servizio, sono in ottimi rapporti con una bravissima famiglia tedesca, che ho conosciuto nel profondo del cuore. Quando sono in città io porto loro il mio bambino, essendo a volte troppo impegnata nei vari lavori da svolgere.
La famiglia si occupa di lui, lo accoglie in casa e lo tratta come un figlio. Sto parlando della famiglia Karaus, il cui marito è un alto dirigente nell’industria che produce birra tedesca»
(1).

A questo punto del racconto mia madre, stanca e disfatta per la drammatica situazione in cui si trovava, scoppiò a piangere. Supplicò ed implorò più volte quei soldati, affinché avessero compassione di quei poveri ragazzi.
Si affidò alla loro clemenza per non fargli bruciare la casa. L’ufficiale fu colpito dal suo racconto. «L’ammiro, signora, per il coraggio che ha avuto venendo da noi e mettendo a repentaglio la sua vita, in memoria di sua sorella e per aiutare i suoi nipoti. Sappia che anche io ho una moglie e dei figli che non vedo da tempo e mi mancano moltissimo.
Capisco il suo stato d’animo. Io purtroppo devo eseguire gli ordini che mi sono stati impartiti. Non la trattengo, considerando che il suo bambino la starà aspettando. Ora non le posso assicurare nulla, ma essendo al corrente della sua storia, mi adopererò presso i miei superiori. Adesso può andare a casa. Abbia fiducia in me».

L’ufficiale lasciò libera mia madre e la salutò cortesemente. Lei avvisò parenti e conoscenti: c’erano buone speranze che la casa non venisse incendiata. Più tardi, infatti, quei militari cessarono l’occupazione e se n’andarono via. Sull’imbrunire, per precauzione vennero portati via dalla casa con carriola o carretti a mano, gli oggetti più indispensabili: vestiario, qualche mobile, sedie, tavola e coperte. Ogni cosa venne traslocata nella casa in vicolo Pastore. Anche io mi resi utile trasportando le cose più leggere.

Nel frattempo il vecchio genitore dei tre ragazzi andava anche lui avanti e indietro, nulla trasportando, ma imprecando. Diceva che eravamo matti e che quello che stavamo facendo non era da fare. L’anziano non voleva spostare la douja, ovvero la pignatta con i salami immersi nel grasso. Il caso volle che a metà vicolo questo recipiente si rompesse, e i volontari che lo stavano trasportando vennero ricompensati con ingiurie di ogni tipo. Alla fine la douja rotta arrivò a destinazione, al calar della sera. Per molti fu una giornataccia da non rivivere più.

Giuseppe Cantello, un poco imbarazzato, a spasso per le vie di Torino con la figlia dei signori Karaus.

Giuseppe Cantello, un poco imbarazzato, a spasso per le vie di Torino con la figlia dei signori Karaus.

Un episodio da ricordare

Un’azione del genere, con ardua e audace impresa compiuta da una semplice donna, ha dell’incredibile e può sembrare una storia di fantasia.

Il fatto è rimasto sconosciuto quasi a tutti, se non ai dirimpettai di casa, oramai deceduti. Nessuno può confermare la veridicità dell’accaduto, se non il sottoscritto.
Molti anni dopo, quando ho spiegato a un parente che mia madre durante la guerra aveva salvato quella casa dall’incendio dei tedeschi, non mi ha creduto.

Da come si sono svolti gli avvenimenti, avvolti da un alone quasi misterioso e dall’incredulità di molti, io posso solo rispondere: «Pensate quello che volete! Io posso giurare davanti a Dio e agli uomini che i fatti si sono svolti come li ho descritti».
Ormai chi poteva sapere qualcosa in merito non c’è più. È rimasta solo una mia coetanea, che ricorda di aver visto più volte i tre giovani fuggire, passando dal suo giardino.

A volte, quando ripenso all’intrepida audacia di quella donna che non ha ricevuto nessun ringraziamento, mi sento rammaricato, amareggiato e dispiaciuto.

È così che ho deciso, per mia personale soddisfazione, di esporre tutto quanto nel presente racconto, perché io sono stato l’unico testimone effettivo di un avvenimento così grande per noi.


Nota.

  1. Il signor Karaus mi volle presente nella parrocchia torinese della Crocetta, a fine anni ’40, alla sua investitura a Console onorario della Repubblica di San Marino, carica che gli permise di restare a Torino.

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