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Cultura, potere e affidamenti: l’inchiesta che mette in crisi il PD

Il volto riformista del PD finisce nel mirino della magistratura. Corruzione, abusi e affidamenti opachi nella città simbolo della sinistra amministra bene. E ora la corsa alle Marche traballa, mentre il Nazareno si divide tra imbarazzo e sostegno di facciata.

Scandalo a Pesaro: indagato l'ex sindaco Matteo Ricci per affidamenti senza gara

Matteo Ricci

Per anni Matteo Ricci, il pesarese che ha incarnato la figura del sindaco operativo e riformista, è stato il volto di un’amministrazione con lo sguardo fisso su Roma ma i piedi ben piantati nei territori. Ex enfant prodige del Partito Democratico, europarlamentare in carica, già primo cittadino di Pesaro, ex presidente della Provincia e per lungo tempo leader nazionale dell’associazione ALI – Autonomie Locali Italiane, Ricci si trova ora coinvolto in un’inchiesta giudiziaria che rischia di segnare uno spartiacque nella sua carriera politica. L’indagine, ribattezzata dalla stampa come Affidopoli, lo vede al centro di un presunto sistema di affidamenti diretti, elargiti dal Comune di Pesaro – all’epoca sotto la sua guida – a due associazioni culturali: Opera Maestra e Stella Polare. Il valore degli affidamenti contestati si aggira attorno ai 600.000 euro. L’accusa? Corruzione e abuso d’ufficio, con l’ipotesi di un uso disinvolto dei fondi pubblici per finanziare realtà considerate "vicine".

La Procura contesta la mancanza di trasparenza, l'assenza di gare pubbliche, un metodo consolidato di aggirare le soglie per affidamenti diretti, proprio nel cuore di quella che viene celebrata come la città modello della sinistra e così Pesaro, capitale italiana della cultura 2024, si ritrova improvvisamente “capitale dei favori”.

In un reel diffuso sui social Ricci si è detto “amareggiato e arrabbiato”, dichiarando di “non essersi mai occupato personalmente di quegli atti”, scaricando la responsabilità sui dirigenti comunali. Ma intanto, insieme a lui, risultano indagate altre 23 persone, tra funzionari e collaboratori.

La vicenda piomba come un macigno in un momento decisivo: Ricci è il candidato del centrosinistra alla presidenza della Regione Marche. Un nome scelto dopo un lungo tira e molla interno al Partito Democratico, segnato dallo scontro permanente tra l’area che fa capo a Elly Schlein e quella legata a Stefano Bonaccini.

Ricci è sempre stato un uomo di Bonaccini. Uno dei più visibili. Durante il congresso del 2023 aveva rinunciato a candidarsi per la segreteria proprio per sostenere il presidente dell’Emilia-Romagna, con l’obiettivo – disse – di “spostare la barra del partito più a sinistra”, ma restando dentro una visione riformista e amministrativa. Non è un segreto che tra lui e la segretaria Schlein i rapporti siano stati fin da subito freddi. Non ostili, ma neanche armonici. Quando a luglio 2023 Bonaccini lancia la corrente Energia Popolare, Ricci è lì, in prima fila. Ne diventa volto, firma, stratega. Il suo nome rientra in tutte le manovre di peso degli amministratori locali che tentano di dare un profilo più pragmatico a un partito che con Schlein ha virato verso il movimentismo identitario.

Ma ora che la magistratura lo coinvolge direttamente, quella corrente s’è d’un tratto ammutolita. In molti, dentro il PD, si interrogano sull’opportunità di difendere fino in fondo la sua candidatura. In privato, più di qualcuno inizia a parlare di “errore strategico”. Pubblicamente, però, Elly Schlein ha confermato il suo appoggio, ricordando che “le garanzie valgono per tutti” e che “saranno i giudici a chiarire tutto”. La stessa cosa la ripetono molti alleati, anche se la freddezza dei 5 Stelle è palpabile. L’alleanza, già difficile, rischia di rompersi sotto i colpi della magistratura. E il centrodestra, con il presidente uscente Francesco Acquaroli, ringrazia e avanza nei sondaggi.

Ora la domanda che aleggia tra i dem è una soltanto: Ricci può ancora essere il candidato giusto per battere il centrodestra nelle Marche? Per ora nessuno lo scarica, ma l’aria è cambiata. E se non sarà la politica a fermarlo, potrebbero esserlo i tempi della giustizia.

Perché in politica, anche chi ha “energia popolare”, può ritrovarsi improvvisamente senza corrente.

E poi c’è un altro elemento che pochi hanno osato sollevare pubblicamente, ma che tra i corridoi del Nazareno gira da mesi: l’insofferenza reciproca tra Ricci e Schlein. Lui, simbolo di una classe dirigente amministrativa che la nuova segreteria ha sempre guardato con sospetto. Lei, sostenuta da una base militante che considera i riformisti troppo moderati, troppo compromessi, troppo “governisti”. Il risultato è stato un equilibrio precario, fatto di strette di mano fredde e dichiarazioni di circostanza.

Ecco perché la bufera giudiziaria di Pesaro, al di là del merito penale, ha acceso una miccia politica. Per i bonacciniani, Ricci resta un punto di riferimento. Ma in molti iniziano a domandarsi se non sia diventato un problema da gestire piuttosto che una risorsa da valorizzare. La sua corsa alla presidenza della Regione Marche, che doveva essere una passerella verso il rilancio nazionale, rischia ora di trasformarsi in un campo minato.

Matteo Ricci, questo va detto, non è uno che si arrende. È abituato a resistere, a mediare, a rilanciarsi. In passato è sopravvissuto a purghe politiche, bocciature interne, scivoloni elettorali. Ha imparato a non mollare. Il suo futuro, ora, dipende da due variabili: la velocità della magistratura e il coraggio (o il cinismo) del Partito Democratico.

Se la giustizia dovesse rallentare e il PD dovesse decidere di proteggerlo fino in fondo, allora Ricci potrebbe persino uscirne rafforzato. Ma se dovesse crollare la fiducia politica, basterebbe anche un avviso di garanzia in più per farlo sparire dai radar.

Del resto, la politica italiana è piena di leader bruciati per molto meno. E il fuoco, quando si accende, divampa in fretta.

 

 

Il volto pragmatico della sinistra, ora sotto assedio

Quando nel Partito Democratico si cercava qualcuno che coniugasse radicamento locale, capacità comunicativa e fedeltà al partito, il nome di Matteo Ricci compariva sempre. Non solo per il suo curriculum da amministratore navigato, ma perché, in un PD costantemente in crisi d’identità, lui riusciva a incarnare un modello rassicurante: europeista, progressista, laico, ma mai estremista. Uno che sapeva parlare di scuola e di bilancio, che promuoveva la cultura ma si sedeva ai tavoli economici con Confindustria. Un sindaco “in camicia”, uno che frequentava la piazza, ma senza megafono.

Ali

Il suo profilo era così riconoscibile che più di una volta era stato proposto per incarichi ben più alti: portavoce nazionale del PD, candidato alla segreteria, ministro tecnico dell’area centrosinistra. Ogni volta, si è fermato a un passo. Troppo bonacciniano per piacere alla sinistra interna, troppo ambizioso per trovare spazio tra i comprimari.

Il vero problema, per lui, non è solo l’inchiesta. È che attorno alla sua figura si è creata, nel tempo, una costellazione di rapporti, ruoli e piccole rendite politiche che oggi rischiano di implodere. Il dito è anche puntato sulla sua passata esperienza come presidente di ALI – Autonomie Locali Italiane, la sigla che raggruppa centinaia di Comuni, Province, enti locali, un tempo area d’influenza della sinistra riformista. Ricci l’ha guidata dal 2018 al 2024, rilanciandola con iniziative pubbliche, prese di posizione politiche – come l’opposizione all’autonomia differenziata – e con il lancio del Festival delle Città, vetrina per amministratori, assessori e sindaci d’Italia. Una sorta di “Leopolda dei territori” con meno luci e più concretezza.

A rendere ancora più significativa la vicenda ALI è la rete che Matteo Ricci ha saputo costruire nel tempo con i sindaci d’Italia. Non si tratta solo di relazioni istituzionali: parliamo di una rete politica vera e propria, fatta di alleanze, condivisione di linee politiche, partecipazioni incrociate a convegni, eventi, manifesti comuni, posizionamenti strategici. Tra i nomi più vicini a Ricci, almeno fino a pochi mesi fa, spiccava anche quello della sindaca di Settimo Torinese Elena Piastra.

Piastra, esponente del PD, candidata in pectore alla carica di presidente della Regione Piemonte, è una delle donne più visibili della galassia ALI, partecipa a tutti gli eventi promossi dall’associazione e, in passato, è comparsa spesso accanto a Ricci nelle foto ufficiali, nei panel sul futuro degli enti locali, nelle iniziative sul welfare territoriale. Lei stessa, nei suoi interventi pubblici, ha più volte rivendicato un legame “naturale” con l’esperienza politica di Ricci.

Nel luglio del 2024 Ricci ha consegnato la presidenza di ALI al sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Al fianco di Gualtieri, come vice, proprio lei: Elena Piastra. Una staffetta che allora sembrava naturale. Oggi suona come un’eredità politica da maneggiare con cautela.

la sindaca Elena Piastra. Dietro di lei

La sindaca Elena Piastra di Settimo Torinese. Dietro di lei il sindaco di Roma Gualtieri

La crisi del modello Pesaro

Per anni Pesaro è stata raccontata come un laboratorio politico e amministrativo da esportare. Cultura, turismo, bilanci in ordine, relazioni istituzionali forti, uno storytelling che funzionava. Ricci ne è stato architetto e testimonial, spesso anche regista. L’investitura a Capitale Italiana della Cultura 2024 era stata letta come la consacrazione definitiva di un percorso virtuoso. E lo stesso Ricci aveva più volte definito Pesaro “la città dove la sinistra governa bene”, contrapponendola, con garbo ma decisione, a quelle realtà del Sud e del Nordest dove la sinistra perde e governa peggio.

Ma oggi, proprio Pesaro, viene indicata come la città degli affidamenti opachi. Delle delibere sotto soglia. Dei finanziamenti distribuiti senza trasparenza. Di un sistema, non criminale forse, ma strutturato e radicato. Il paradosso è tutto lì: il modello che doveva diventare riferimento per l’Italia, rischia di trasformarsi nel simbolo di quella gestione del potere che il PD prometteva di superare. 

E c’è dell’altro: Matteo Ricci ha sempre investito moltissimo nella comunicazione. Conosce bene i social, si muove con sicurezza nei talk show, ha relazioni personali con giornalisti, conduttori, opinionisti. Ha saputo costruire una narrazione pubblica di sé come uomo del fare, riformista, sorridente ma determinato. Uno che sapeva spiegare la legge di bilancio in TV e, un attimo dopo, twittare una foto con la maglia della sua squadra di basket. Quel linguaggio ibrido tra amministratore e influencer politico, che oggi è diventato standard tra molti sindaci, Ricci lo usava già dieci anni fa.

Ecco perché l’indagine pesa ancora di più. Perché incrina non solo la reputazione politica, ma anche quella mediatica. E soprattutto, solleva interrogativi sulla retorica dell’efficienza. Quanto c’è di reale, e quanto è solo immagine? Quante città “modello” si reggono su equilibri che nessuno controlla davvero? E se le associazioni finanziate erano “vicine”, lo erano perché brave o perché fedeli?

In questa zona grigia si gioca oggi il destino politico di Matteo Ricci. Se riuscirà a scrollarsi di dosso il sospetto, tornerà in pista più forte di prima, con la narrazione dell’uomo che ha resistito anche alla gogna. Ma se la nube giudiziaria resterà sospesa a lungo, allora il rischio è che si spenga nel silenzio di un partito che ha bisogno di non avere più grane.

Perché nella politica italiana, il silenzio dei compagni è molto più letale di mille attacchi degli avversari.

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