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Due anni senza Bettazzi, una voce che manca a tutti

Luigi Bettazzi: un vescovo dirompente che ha camminato tra il dialogo e l’impegno sociale, mantenendo viva una voce profetica che continua a ispirare

Due anni senza Bettazzi, una voce che manca a tutti

Sono passati due anni. Due anni da quando Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, se ne è andato all’alba del 16 luglio 2023, a 99 anni. Ma se c’è una cosa che la morte non è riuscita a spegnere, è la voce. La voce di un uomo che ha attraversato un secolo di storia tenendo in mano un Vangelo scomodo, impegnativo, senza scorciatoie. Un Vangelo incarnato. Perché Bettazzi non è stato un predicatore, ma un testimone. Non un funzionario della fede, ma un cercatore inquieto di senso, che non ha mai avuto paura di sporcarsi le mani nella storia. E domenica 20 luglio, alle 18, nella cattedrale di Ivrea, sarà celebrata una messa in suo suffragio presieduta da Monsignor Piergiorgio Debernardi. Ma non basterà un rito per contenere ciò che quest’uomo è stato. Né per elencare tutto ciò che ci ha lasciato. C’è una generazione intera che lo ha conosciuto e non lo dimentica. E ce n’è un’altra che non lo ha mai incontrato, ma che oggi ha bisogno, forse più di ieri, di parole come le sue.

Nato a Treviso nel 1923, Luigi era figlio di un ufficiale toscano e di una donna bolognese. Il padre, Raffaello, conobbe Teresa Maglioni durante la Prima guerra mondiale, e l’infanzia di Luigi si divise tra la città veneta e Bologna. Ordinato sacerdote il 4 agosto 1946 nella basilica di San Domenico, fu un uomo di studi e di preghiera. Si laureò in Teologia alla Pontificia Università Gregoriana e in Filosofia a Bologna. Ma più che ai titoli accademici, teneva alle relazioni. Già giovane sacerdote, amava parlare con i non credenti, ascoltare le ragioni degli altri, mettersi in discussione. Questa attitudine lo avrebbe accompagnato sempre, fino alla fine. E forse fu proprio questa apertura d’animo a farlo emergere nel clima rivoluzionario degli anni Sessanta.

Il 10 agosto 1963, poco prima di compiere quarant’anni, fu nominato vescovo titolare di Tagaste – l’antica sede africana di Sant’Agostino – e vescovo ausiliare di Bologna. Al suo fianco, come guida e punto di riferimento, c’era il cardinale Giacomo Lercaro, figura centrale del cattolicesimo conciliare. Con lui, Bettazzi partecipò a tre sessioni del Concilio Vaticano II. Un’esperienza che non fu solo storica, ma spirituale. Fu proprio lì che comprese che la Chiesa non poteva più bastare a sé stessa, che bisognava ascoltare il mondo, comprenderlo, entrarci dentro senza paura. Da lì in poi, nulla fu più come prima. Il giovane vescovo aveva già intuito che la profezia non nasce dai palazzi, ma dalle periferie, dalle domande, dalle ferite del mondo.

Nel 1966 fu destinato alla diocesi di Ivrea. Vi fece ingresso il 15 gennaio del 1967, al volante di una Fiat Seicento e con un sigaro toscano tra le labbra. Diede del tu a tutti, fece impazzire i meccanici con le sue auto sfondate dalle troppe visite pastorali e stravolse i ritmi vescovili. Non stava fermo un attimo. Voleva conoscere ogni parrocchia, ogni prete, ogni anziano. Visitò ogni cappella della diocesi, anche quelle sperdute nelle valli, spesso in incognito. U

na volta, in Valchiusella, quando annunciò la sua visita, il vecchio padre del parroco esclamò in dialetto: “Diavolo! Non è possibile”. Bettazzi sorrise e rispose nello stesso dialetto: “Tranquillo, non sono il diavolo”. Era così. Disarmante. Vicino. Capace di abbattere qualunque distanza. In quegli anni la diocesi di Ivrea contava oltre trecento sacerdoti. E lui si prendeva cura di ognuno. Passava a trovarli a casa, chiacchierava con i genitori, portava conforto agli ammalati. Non delegava mai. Era pastore con l’anima e con il corpo. Lo chiamavano il vescovo rosso, per il suo legame con il mondo del lavoro, per la sua apertura al dialogo con la sinistra, per il coraggio di dire ciò che molti tacevano.

Ma Bettazzi era molto più di un buon vescovo. Era un intellettuale, un teologo, un uomo di pace, un agitatore di coscienze. Nel 1968 fu nominato presidente nazionale di Pax Christi, il movimento cattolico per la pace. Dieci anni dopo divenne presidente internazionale. Girò il mondo, portando la voce di un cattolicesimo disarmato, profetico, inquieto. Nel 1992 partecipò alla marcia in Bosnia, con don Tonino Bello e i Beati costruttori di pace, mentre a Sarajevo piovevano bombe. Ma già negli anni Settanta aveva fatto parlare di sé per la sua battaglia a favore dell’obiezione fiscale alle spese militari, quando ancora si rischiava il carcere. Non cercava mai lo scontro, ma non sopportava l’ipocrisia. Scelse la disobbedienza quando la coscienza lo chiamava.

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Bettazzi al presidio per la pace in piazza di città

E fu proprio lui, nel 1978, nei giorni terribili del sequestro di Aldo Moro, a proporsi come ostaggio alle Brigate Rosse in cambio della liberazione dello statista. Insieme ai vescovi Clemente Riva e Alberto Ablondi, aveva ottenuto l’assenso a compiere quel gesto estremo. Ma la Segreteria di Stato vaticana lo bloccò. “Lei poteva non venire, ma ora che è venuto, le proibiamo di agire”, gli disse il cardinale Giuseppe Caprio. Lui abbassò lo sguardo, ma dentro rimase ferito. Profondamente. Perché capì che non si trattava solo di prudenza ecclesiastica, ma della volontà politica di non salvare Moro. Bettazzi lo raccontò anni dopo con parole di fuoco: “Mi risposero come Caifa: meglio che muoia un uomo solo, piuttosto che tutto il popolo perisca”. E da allora non ha mai più smesso di denunciare i silenzi del potere.

La sua fu una vita spesa per il dialogo. Scrisse un carteggio memorabile con Enrico Berlinguer, che poi pubblicò nel libro L’anima della sinistra. Difese i DICO, dichiarò pubblicamente di essere favorevole al riconoscimento delle unioni civili, parlò dell’omosessualità con un rispetto e una profondità inedite.

“La questione del sesso va studiata, emancipandosi dai neoplatonici che fanno coincidere sesso e decadenza dello spirito”, dichiarò nel 2015.

E aggiunse: “Perché non espressione dello spirito umano?”. Frasi che fecero inorridire i conservatori, ma che rivelavano il coraggio di chi non smette mai di interrogarsi. Tra i suoi molti scritti, spiccano titoli come Difendere il Concilio, Povertà e servizio, Viva il Papa, viva il Popolo di Dio!, Anticlericali e clericali, In dialogo con i lontani, Apocalisse: messaggio di speranza. Ogni pagina un invito a pensare. Ogni libro, una finestra sulla coscienza.

Dopo le dimissioni del 1999, Monsignor Bettazzi andò ad abitare nel castello episcopale di Albiano d’Ivrea, dove ha vissuto fino alla fine. Ma non si è mai ritirato davvero. Ha continuato a viaggiare, a scrivere, a partecipare ai dibattiti. Frequentava librerie, sedeva tra gli studenti ai convegni, prendeva il treno per Roma, Bologna, Parigi, come un giovane curioso più che come un anziano prelato. Parlava con tutti: giovani, atei, preti, comunisti, giornalisti.

Non aveva paura del confronto, anzi, lo cercava. Era, come amava definirsi, “un vescovo un po’ laico”. E in quel sottotitolo c’era tutta la sua teologia dell’incontro. Ripeteva spesso: “Il mondo non si divide tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti”. Aveva ancora quella luce viva negli occhi. E una memoria prodigiosa: ricordava nomi, volti, discorsi di cinquant’anni prima. Negli ultimi anni si è fatto ancora più affettuoso, ironico, riconoscente. Non ha mai mollato una battaglia, ma sorrideva di più. Raccontava aneddoti, si commuoveva, ringraziava chi gli scriveva, chi lo veniva a trovare. E lentamente, con grande dignità, si è preparato a partire.

Nel luglio del 2018 scrisse una lettera pubblica al presidente Giuseppe Conte. Aveva 94 anni. Parlava di migranti, di Mediterraneo, di dignità umana. Scrisse: “Non vogliamo diventare corresponsabili di una tragedia che la storia ha affidato al nostro tempo”. Disse che il problema non era “prima gli italiani”, ma “prima l’umanità”.

Il giorno dopo i social si scatenarono. Gli dissero di ospitare i profughi a casa sua. Di aprire il Vaticano. Di tacere. Noi scrivemmo una parola sola, a caratteri cubitali: Vergogna.

Perché in certi casi, prima di parlare, bisognerebbe sapere con chi si ha a che fare. Perchè sì, Bettazzi non era un vescovo qualsiasi. Era uno di quelli che la storia non dimentica. E che a volte, la storia, la anticipano.

Il 16 luglio di due anni fa se n’è andato. Non ha lasciato un vuoto. Ha lasciato una direzione. Un cammino. Una possibilità. In un tempo in cui le voci sono urlate, Luigi Bettazzi è stato sussurro. Ma quel sussurro aveva la forza di un terremoto. E oggi più che mai, ci manca.

Manca la sua intelligenza, la sua ironia, la sua libertà. Manca la sua domanda: “Siamo davvero dalla parte dell’uomo?”. Non chiedeva di essere imitato. Solo ascoltato. È il minimo che possiamo ancora fare. E, forse, anche il massimo.

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