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Olivetti delle Meraviglie
23 Giugno 2025 - 16:54
Anni '60, la sala esposizione creata per la sede della Olivetti Corporation of Japan a Tokyo (Archivio Storico Olivetti)
Tokyo, 1979. La consociata giapponese di Olivetti sta per essere tagliata fuori dal mercato. Il governo impone computer capaci di leggere e scrivere i complessi ideogrammi della lingua nipponica. Tutto sembra perduto. Ma due italiani decidono di rischiare tutto…
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Ricordiamo tutti che, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, Olivetti fu uno dei maggiori fornitori di computer al mondo. E fin qui, nulla di nuovo. Forse non ricordiamo che aveva anche sviluppato un sistema operativo all’avanguardia, il MOS, un’offerta molto competitiva specialmente per il settore bancario.
E sul MOS si basò l’automazione giapponese, la cui storia, mai raccontata fino ad ora, ci ha sorpreso per la sua audacia.
Olivetti aveva una Consociata in Giappone, che contava più di 2.000 dipendenti e 51 filiali, e aveva venduto alle banche, dal 1975 in poi, piccoli computer Olivetti TC800 a un cliente molto importante: le NOKYO, un ente semigovernativo con più di 10mila agenzie.
Quando, nel 1979, il governo giapponese decise che in futuro sarebbero stati installati solo computer in grado di gestire le migliaia di ideogrammi KANJI della lingua giapponese, la OCJ rischiò di uscire completamente dal mercato.
Non si trattava di installare una lingua diversa, ma periferiche specializzate per risolvere la gestione degli ideogrammi da tastiera, a video, in stampa.
Quale sistema operativo avrebbe potuto gestire questa complessità, se non il MOS?
Fu attivata una task force che risolse il problema integrando il KANJI nei livelli più bassi del MOS, ancora in fase di sviluppo per le lingue “occidentali”. All’epoca implicò correre un rischio enorme, ma il successo dell’iniziativa permise a OCJ di mantenere il cliente e installare sistemi giapponesizzati anche presso altre banche.
Tant’è che oggi, mentre la Olivetti in Italia è scomparsa, vive ancora in Giappone: OCJ fu acquisita da NTT (la Telecom giapponese), che ancora oggi, sul proprio sito web, dichiara con orgoglio che la sua azienda madre è Olivetti.
Ma, più che a un insieme di fatti, merita pensare a quella operazione come a una serie di azioni, sostenute da una visione e da persone che accettarono di realizzarla mettendosi personalmente in gioco.
Il perimetro in cui operarono i protagonisti dell’impresa NOKYO era ad alto rischio, probabilità di successo di tipo “zero virgola”, in un contesto di Casa Madre (Olivetti Ivrea) che da una parte spingeva e dall’altra frenava.
Due sconosciuti: Cesare Monti e Tonina Scuderi, ai quali, se avessero fallito, sarebbe stata addossata tutta la colpa.
Quando, inaspettato, arrivò invece il loro successo, l’azienda madre già si era praticamente dimenticata di loro, contabilizzando l’iniziativa e passando oltre verso lidi che poi la portarono alla deriva.
Quanti Monti e Scuderi ci sono stati in quella favolosa fucina di cervelli che fu la Olivetti che rimpiangiamo?
A quanti altri non si diede spazio per privilegiare giochi interni di potere e di carriera?
Dove saremmo oggi se la visione di un mondo tecnologico fuori dai confini nazionali ci fosse interessata davvero?
La Consociata in Giappone dovette inventarsi un’offerta che non aveva più niente a che fare con quella della casa madre.
Il valore aggiunto di avere un faro prezioso acceso in un polo tecnologicamente avanzato del mondo non fu sfruttato.
Ci sarebbe stato tutto il mercato cinese e coreano davanti, ma la Consociata lì non poteva vendere da sola e la strategia di area non lo comprese o non se ne curò abbastanza: si chiama sindrome del “Not Invented Here” ed è una malattia molto pericolosa.
Storia interessante, sconosciuta e dimenticata, dei tempi in cui Olivetti era una realtà mondiale e avrebbe potuto continuare a esserlo, probabilmente.
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