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Repole sfratta i sacerdoti del Verbo Incarnato e umilia due intere parrocchie. Petizione in corso

Dal 1° settembre via i Padri da Maria Madre della Chiesa e Pier Giorgio Frassati. Nessuna colpa, nessuna spiegazione. Solo un silenzio arrogante e un popolo tradito. Fedeli in rivolta: “Vogliamo la verità”.

Repole sfratta i sacerdoti del Verbo Incarnato e umilia due intere parrocchie. Petizione in corso

Padre Giuseppe

“La nostra è una voce che nasce dal popolo di Dio. Una voce semplice, ma carica di amore, riconoscenza e dolore.” Così comincia la petizione indirizzata al cardinale arcivescovo di Torino, Roberto Repole, firmata dai fedeli laici delle parrocchie di Maria Madre della Chiesa e del Beato Pier Giorgio Frassati, affidate da anni ai sacerdoti e alle suore della Famiglia Religiosa del Verbo Incarnato.

Un documento che trabocca dignità, composto con il linguaggio del cuore e della fede, ma che grida più forte di qualsiasi invettiva. Chiedono che non vengano mandati via i loro padri spirituali, quelli che li hanno accompagnati nella vita e nella fede, che hanno riempito di senso le liturgie, costruito relazioni, avvicinato i lontani, ascoltato i sofferenti, educato i giovani, generato vocazioni, ricostruito comunità dove regnava l’indifferenza. Ma quella voce, ancora una volta, sembra destinata a infrangersi contro un muro di gomma: il silenzio glaciale dell’Arcivescovo.

padre

Padre Danilo

Il prossimo 1° settembre, infatti, padre Giuseppe, padre Alessandro e padre Danilo dovranno lasciare le due parrocchie torinesi, in esecuzione di un provvedimento deciso un anno fa ma tenuto accuratamente nell’ombra. Nessuna spiegazione ufficiale, nessun confronto, nessuna motivazione esplicita. Solo allusioni vaghe a una “mancanza di sintonia” con le linee diocesane. E quale sarebbe questa sintonia mancata? L’amore per l’Eucaristia? Il rigore nella liturgia? Il richiamo alla confessione, all’adorazione e alla dottrina cattolica? Se queste sono le colpe, allora sì: i padri del Verbo Incarnato sono colpevoli.

La verità è che questo sfratto non è un incidente pastorale, ma l’esito di una precisa strategia ideologica.Un’epurazione silenziosa, dissimulata da burocratismi curiali e da parole come “discernimento” e “comunione”. In realtà, l’obiettivo era chiaro da tempo: cancellare un’esperienza ecclesiale considerata scomoda perché “troppo cattolica”, “troppo devota”, “troppo tradizionale”. Già nel 2022, sotto il pontificato di monsignor Cesare Nosiglia, era comparso un pamphlet al vetriolo firmato da Francesco Antonioli e dalla “teologa” Laura Verrani, dal titolo “Lo scisma emerso”. Senza mai nominare direttamente i religiosi del Verbo Incarnato, il testo li accusava velatamente di essere “autoreferenziali”, “chiusi alla vita ecclesiale”, “in contrasto con la pastorale diocesana”. Ma il disegno era chiaro.

A corredare l’operazione ideologica, un dossier di 40 pagine – preparato, pare, da due donne “impegnate” nel mondo cattolico torinese – fu inviato alla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 2021. Che fine abbia fatto, nessuno lo sa. Nessun provvedimento. Nessuna sanzione canonica. Nessun chiarimento. Semplicemente: silenzio. Come se quelle accuse fossero servite solo a preparare il terreno per un’esclusione preventiva, a tavolino, senza diritto di replica.

I ringraziamenti contenuti nel libro di Antonioli e Verrani non lasciano spazio a dubbi: compaiono i nomi più altolocati del progressismo ecclesiale torinese. L’ex sindaco Valentino Castellani, la potentissima Morena Savian, plenipotenziaria della Curia con competenza su liturgia, catechesi, cultura e gioventù, e una schiera di preti “boariniani” ben noti per la loro insofferenza verso ogni espressione di fede non conforme al verbo post-conciliare: don Oreste Aime, don Roberto Populin, don Marco Ghiazza, il defunto don Carlo Franco e perfino l’ex prete Enrico Peyretti, da mezzo secolo in lotta per ogni causa “avantista” disponibile.

Ma il colpo di scena è andato in scena venerdì 7 giugno, durante l’incontro organizzato nella chiesa di Maria Madre della Chiesa. La comunità aveva chiesto a gran voce un confronto con l’Arcivescovo. Non è mai arrivato. Al suo posto è stato mandato don Mario Aversano, accompagnato da padre Ugo Pozzoli e don Alberto Savoldi. I tre hanno provato, goffamente, a indirizzare la serata verso toni spirituali, leggendo brani evangelici sull’obbedienza. Ma la platea non si è lasciata irretire. Tutti hanno preso la parola: genitori, giovani, catechisti, parrocchiani di lungo corso. Tutti hanno testimoniato il bene ricevuto dai Padri. E tutti, con calma ma con fermezza, hanno chiesto una cosa sola: la verità.

“Perché li mandate via? Che cosa hanno fatto di male? Perché il vescovo non ci riceve? Dov’è l’ascolto? Dov’è la sinodalità?” A queste domande, don Aversano non ha saputo rispondere. Ha parlato di una “distonia” non meglio precisata, e infine si è appellato a un generico “segreto”. Il disagio era palpabile. Tanto più quando, per completare l’umiliazione, è stato annunciato il nome del sostituto: don Igino Golzio, classe 1949, ordinato nel 1984. Un prete in pensione per guidare due comunità vive e fiorenti. L’ennesimo segnale di disinteresse, come dire: prendete questo e non lamentatevi. È rimasto nel barile.

La reazione della Curia? Nessuna. Nessun comunicato, nessuna replica, nessun gesto di trasparenza. Solo la volontà di minimizzare, insabbiare, trattare il tutto come un normale avvicendamento. Ma la verità è che qui non c’è nulla di normale. Cacciare tre religiosi amati dal popolo, senza un’accusa pubblica, senza un confronto, senza una parola, è un abuso di potere spirituale. È la negazione stessa della comunione. È la fine di ogni sinodalità.

E la Chiesa torinese esce da questa vicenda più divisa, più sfiduciata, più vuota. Il consiglio presbiterale è ridotto a un organo decorativo, la Curia assomiglia sempre più a una macchina amministrativa priva di anima, e le comunità – quelle vere, fatte di gente semplice, che prega e spera – vengono trattate come un fastidio. Ma davvero questa è la Chiesa che vogliamo? Una Chiesa dove chi evangelizza viene silenziato, dove chi genera vita spirituale viene rimosso, dove il popolo non conta nulla?

Forse i Padri del Verbo Incarnato non erano “in sintonia” con la linea diocesana. Ma se quella linea porta all’azzeramento di esperienze autentiche, al culto dell’omologazione, alla paura della Tradizione, allora forse è tempo di chiederci: con chi non è in sintonia la diocesi stessa?

“Confidiamo nella Sua comprensione e nella Sua sensibilità pastorale,” scrivono i fedeli a monsignor Repole, “certi che vorrà accogliere la nostra preghiera come espressione sincera dell’affetto e del bisogno spirituale di un popolo che ama i suoi pastori.” Ma la risposta, per ora, è il silenzio. Un silenzio che pesa come una pietra sull’altare.

Quando una Chiesa vive nella paura di chi crede troppo

Ci sono decisioni che non si possono accettare in silenzio. E quella presa dall’Arcidiocesi di Torino di allontanare i sacerdoti del Verbo Incarnato dalle parrocchie di Maria Madre della Chiesa e del Beato Pier Giorgio Frassati, senza motivazioni pubbliche, è una di queste. Perché non è un avvicendamento ordinario. Non è un trasferimento fisiologico. È uno strappo. Un atto che ferisce. E non solo i religiosi coinvolti, ma l’intera comunità che da anni ha camminato insieme a loro.

Non servono grandi competenze teologiche per riconoscere cosa sia avvenuto: tre sacerdoti che avevano costruito, con passione e coerenza, due parrocchie vive, partecipate, ricche di relazioni, sono stati rimossi con un tratto di penna. Senza una spiegazione. Senza un'accusa. Senza uno straccio di confronto. Nessun documento pubblico, nessuna nota ufficiale, nessuna parola pronunciata guardando negli occhi la gente.

E la gente, intanto, chiedeva solo una cosa: “Perché?”

Lo ha fatto con dignità, con compostezza, con amore. La petizione inviata a monsignor Repole è un documento raro, toccante, quasi commovente. È la voce di chi ha ricevuto, di chi ha visto la fede rinascere, di chi ha trovato nei padri dell’IVE una guida, una presenza, una cura. È il frutto di anni di impegno pastorale reale, che non ha bisogno di slogan, ma parla con i volti, con i nomi, con le storie.

La risposta? Nessuna. Solo un incontro surreale, in cui tre rappresentanti della Curia hanno provato – goffamente – a parlare di obbedienza e a leggere passi del Vangelo, nella speranza di calmare le acque. Non ci sono riusciti. Perché quando la comunità chiede la verità, non puoi cavartela con una parabola.

È mancata, hanno detto, “una certa sintonia con la diocesi”. Una frase che non spiega nulla e nasconde tutto. Perché se c’è stata una mancanza di sintonia, allora va detto in cosa. Quali comportamenti? Quali errori? Quali dissidi? È un problema dottrinale? Liturgico? Disciplinare? Oppure è solo una questione di stile, di toni, di "troppa devozione"?

In fondo, la realtà è sotto gli occhi di tutti. Questo allontanamento non è un caso isolato. È il segnale di una direzione. Una direzione che guarda con sospetto tutto ciò che è troppo identitario, troppo fervoroso, troppo “vecchio stile”. Una Chiesa che si mette paura di chi crede troppo, prega troppo, confessa troppo.

E così, mentre si moltiplicano i proclami sulla “Chiesa in uscita”, sull’ascolto, sulla sinodalità, accade che tre religiosi stimati vengano mandati via come fosse una formalità amministrativa, e che al loro posto venga annunciato – senza imbarazzo – un prete settantacinquenne, evidentemente messo lì per spegnere ciò che resta. Una specie di tappo.

Il popolo, però, non è stupido. Ha capito. Ha parlato. E la Curia, nel suo mutismo, ha scelto la via della chiusura. Ma se il prezzo della “comunione ecclesiale” è l’eliminazione di esperienze autentiche, allora qualcosa si è rotto. Profondamente.

Questa vicenda, piaccia o no, ha squarciato un velo. Ha mostrato quanto sia fragile la relazione tra i vertici e le comunità. Ha detto chiaramente che oggi, in certe diocesi, non conta quanto una parrocchia sia viva, se non è allineata.Non conta quanta gente attira, quante vocazioni genera, quante anime accompagna. Conta solo se si piega alle logiche interne, agli equilibri, agli orientamenti non detti.

Ecco perché non serve essere “dentro la Chiesa” per sentire che qui c’è qualcosa di profondamente ingiusto. Perché quando si colpisce chi costruisce, chi evangelizza, chi serve, allora non si tratta più solo di una questione ecclesiale. È una questione che riguarda tutti. Riguarda la verità. Riguarda la giustizia.

Quella verità che i fedeli, a voce alta e con amore, continuano a chiedere. Quella giustizia che, per ora, continua a mancare.

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Commenti all'articolo

  • Donna

    16 Giugno 2025 - 10:52

    Documentatevi: l'istituto è stato commissariato dalla Santa Sede per motivi legati alla formazione, all'esercizio dell'autorità, al legame non interrotto con Buela e non può accogliere vocazioni. Repole si assuma la responsabilità di dire apertamente queste cose (che pure sono pubbliche) perché i fedeli hanno diritto di avere risposte chiare (ma anche di informarsi).

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