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Referendum? No, grazie. Ce lo abroghiamo da soli (forse)

Il Consiglio regionale sospende la discussione sul referendum per la sanità pubblica: la Giunta promette di cancellare l’articolo contestato, ma del testo nessuna traccia. Intanto, i cittadini restano fuori dalla porta. Con eleganza

Referendum? No, grazie. Ce lo abroghiamo da soli (forse)

Sarah Disabato e Gianluca Vignale

Nel fantastico universo parallelo del Consiglio regionale del Piemonte, oggi è andato in scena un altro capolavoro di strategia politica degna di una commedia degli equivoci. Il punto all’ordine del giorno era chiaro: discutere l’ammissibilità del referendum per abrogare la legge regionale 1/2012, quella che – tanto per capirci – permette alle Asl di mettersi in società con i privati per gestire ospedali e strutture sanitarie, un po' come si era fatto con l’ospedale di Settimo Torinese.

Una legge che da anni viene contestata da medici, sindacati, comitati e cittadini, e che il Comitato per il Diritto alla Tutela della Salute e alle Cure ha deciso di affrontare a muso duro: con un referendum abrogativo, sostenuto da oltre 5.000 firme.

Tutto questo mentre, fuori da Palazzo Lascaris, si svolgeva un presidio molto partecipato, con striscioni, slogan e cartelli, organizzato dai promotori del referendum, poi ascoltati in una breve audizione.

Ma appena finita l’audizione, zac! La maggioranza ha tirato giù la saracinesca, decidendo che non era il momento di dibattere. L’ha fatto Roberto Ravello di Fratelli d’Italia, portando come giustificazione le parole dell’assessore Gianluca Vignale, che nel frattempo aveva rassicurato i sindacati: “Tranquilli, quell’articolo 23 lo abroghiamo noi. Il referendum sarebbe inutile. La legge statale comunque lo permette, tanto vale evitare un voto costoso e inefficace”.

Tradotto: cari cittadini, grazie per il vostro sforzo democratico, le firme, le manifestazioni, le assemblee... ma adesso ci pensiamo noi. Fidatevi.

Peccato che – come è stato immediatamente sottolineato da più parti – del famoso disegno di legge promesso non sia emerso nulla. Nessun testo depositato. Nessuna data per discuterlo. Niente. Solo la classica promessa pronunciata col sorriso da chi sa di avere i numeri per stoppare tutto e dire: “Passate domani”.

“Non c’è nessuna ragione logica per sospendere – ha alzato la voce Alice Ravinale (AVS) – se davvero volete cancellare quella norma, benissimo. Ma prima votiamo sul referendum. È il minimo”.

E sa Sarah Disabato (M5S) ha messo in evidenza la contraddizione tra le rassicurazioni della mattinata e il dietrofront pomeridiano (“Davanti ai sindacati hanno detto A. In Aula hanno fatto B. È sempre la stessa storia”), Daniele Valle (Pd) ha tentato di riportare la discussione su binari razionali (“Approvare l’ammissibilità oggi non avrebbe impedito alla Giunta di abrogarla domani. Nessun ritardo, nessun costo. A meno che quel disegno di legge non contenga altro. O che non vogliate più farlo davvero”). Niente da fare.

A quel punto, Silvio Magliano (Lista Cirio) ha sfoderato la classica metafora da manuale del buon consigliere moderato.

“Se ti chiedono di togliere una legge e tu la togli, la risposta è arrivata”.

Peccato che qui la legge non sia stata tolta. È ancora lì. Viva, vegeta e pronta a restare tale fino a data da destinarsi.

Poi è toccato a Carlo Riva Vercellotti (FdI) salire in cattedra per una lezione di storia revisionista.

“La legge che volete abrogare l’avete fatta voi - ha stigmatizzato - È figlia della sinistra. L’articolo 23 lo avete inserito voi. E autorizzava la cooperativa Frassati a gestire l’ospedale di Settimo. Noi votammo contro”. Insomma: se la sanità è privatizzata, è colpa della sinistra. Se oggi non si discute il referendum, è per coerenza.

Ci voleva un "matematico" ed è intervenuto Paolo Ruzzola (FI): “Il referendum costerebbe almeno 30-35 milioni. Meglio dare una settimana alla Giunta per abrogare l’articolo e risparmiare”. Ovazione finale. Chiusura dei lavori. Tutti a casa.

Ma quei 30-35 milioni di euro? Si tratta di una stima dei costi della consultazione popolare, comprensiva di allestimento dei seggi, personale, logistica, materiale elettorale e rimborsi per i firmatari, pari a 1 euro per ogni sottoscrizione raccolta come da normativa. Un investimento nella partecipazione democratica che, per qualcuno, vale meno di una promessa non documentata.

Nel dopo Consiglio, i consiglieri regionali del M5SDisabato, Unia e Coluccio – hanno diffuso una nota al vetriolo: “Dicono A, fanno B. Una continua presa in giro. Oggi il centrodestra ha votato per sospendere il dibattito, dopo aver promesso che si sarebbe discusso. Parlano di una legge pronta, ma non l’hanno nemmeno mostrata. È ora di dire basta: o portano il testo subito in Aula, o abbiano il coraggio di lasciare la parola ai cittadini”. E ancora: “Il referendum è uno strumento di partecipazione. Bloccarlo significa soffocare la democrazia. La sanità pubblica è sotto attacco da anni e le scelte delle Giunte che si sono succedute l’hanno progressivamente smantellata, sempre strizzando l’occhio ai privati”.

Dello stesso avviso Gianna Pentenero, presidente del gruppo Pd.

“Oggi hanno giocato alle tre carte pur di evitare il confronto. Il referendum non avrebbe impedito di abrogare la norma. Ma serviva a dare un segnale politico forte. Ora ci aspettiamo che il disegno di legge venga presentato in tempi strettissimi. Non accetteremo altri rinvii”.

Infine, per chiudere il cerchio con un tocco di cabaret, sono arrivati i capigruppo di maggioranza – Riva Vercellotti, Ricca, Ruzzola e Magliano – a spiegare che no, il referendum non serve, che no, la sinistra è schizofrenica, che no, il problema della sanità non è quella legge ma la demagogia dell’opposizione. E soprattutto: “Quei 30 milioni servono ai disabili, non ai comitati”.

Peccato che oggi non si sia votato nulla, non si sia abrogato nulla, non si sia ascoltato nessuno, non sia stato mostrato nemmeno uno straccio di disegno di legge. Ma si sia solo scelto di perdere tempo. Con stile.

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