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Ospedali saturi, letti finiti: la sanità pubblica scarica i malati per terra

"Medicina interna al collasso: il grido d'allarme tra reparti sovraffollati, carenza di personale e riforme in stallo"

Ospedali saturi, letti finiti: la sanità pubblica scarica i malati per terra

Sono i reparti dove finiscono i pazienti più fragili, i più anziani, i cronici, quelli che arrivano con mille patologie sulle spalle e nessuno che li aspetti a casa. Sono i reparti di Medicina interna, l’avamposto silenzioso del sistema sanitario, dove ogni giorno si combatte una battaglia fatta di emergenze, carenze, sovraccarichi e rinunce. E oggi, quel fronte è al limite del collasso.

L’ultima indagine della Fadoi – la Federazione dei medici internisti ospedalieri italiani – condotta su 216 unità operative in tutte le regioni, ha fotografato una realtà che definire drammatica è quasi un eufemismo: nel 58% dei reparti il tasso di occupazione dei posti letto supera il 100%. Tradotto in immagini: pazienti sistemati sulle barelle nei corridoi, separati da un paravento, con l’unica garanzia di una pseudo-privacy fatta di stoffa e rassegnazione.

E non è finita. A peggiorare la situazione, c’è una cronica carenza di personale, denunciata nell’85,65% delle strutture. Medici e infermieri si barcamenano tra turni infiniti, assenza di ricambio e responsabilità crescenti. A volte, a decidere chi può essere curato per primo è la disponibilità di braccia, non di competenze. E mentre la pressione aumenta, quasi la metà degli internisti ammette di non riuscire più nemmeno a ritagliare tempo per l’attività di ricerca. Un danno immenso, sottolinea la Fadoi, perché dove si fa ricerca, migliora anche la qualità dell’assistenza.

Alla saturazione dei reparti si aggiunge un altro problema: la mancata assistenza al di fuori dell’ospedale, che ritarda le dimissioni e trattiene pazienti dimissibili solo perché fuori non c’è nessuno pronto ad accoglierli. I cosiddetti ricoveri per motivi sociali sono diventati un fenomeno strutturale. “Ci sono molti pazienti, soprattutto anziani, che restano in reparto anche quando le loro condizioni cliniche sono stabilizzate, semplicemente perché non avrebbero assistenza adeguata a casa”, spiega Francesco Dentali, presidente della Fadoi.

Eppure, 1 ricovero su 3 – secondo lo studio – potrebbe essere evitato se si investisse di più sulla sanità territoriale e sulla prevenzione. Ma l’Italia resta fanalino di coda in Europa: 3,1 letti ogni mille abitanti, contro gli 8 della Germania, con un totale di appena 35mila posti letto nelle Medicine interne su scala nazionale. Il tutto in un Paese che invecchia rapidamente e che continua a trattare la Medicina interna come un comparto di serie B.

Una classificazione profondamente errata, denuncia ancora Dentali: “I nostri reparti sono considerati a bassa intensità di cura, ma affrontano casi complessi che richiederebbero invece una dotazione ben diversa in termini di personale e strumentazioni diagnostiche”. Questa errata valutazione ha conseguenze dirette e tangibili: meno fondi, meno attrezzature, meno possibilità di intervento tempestivo.

Al congresso nazionale della Fadoi è intervenuto anche il ministro della Salute Orazio Schillaci, che ha riconosciuto la gravità della situazione. “Non possiamo più pensare alla Medicina interna come a un serbatoio per supplire alle carenze dell’assistenza sociale”, ha dichiarato. Il ministro ha annunciato un prossimo Decreto Ministeriale per ridefinire gli standard ospedalieri, e ha ribadito l’intenzione del governo di investire sull’assistenza domiciliare e territoriale, anche grazie ai fondi del Pnrr.

Ma tra gli internisti prevale un cauto scetticismo. Secondo la Fadoi, la riforma dell’assistenza territoriale “stenta a decollare”, e anche se il 72,22% dei medici ritiene che le nuove Case di Comunità possano contribuire a ridurre i ricoveri ospedalieri, resta il dubbio su come e quando verranno effettivamente realizzate. E soprattutto, se riusciranno davvero a prendersi carico dei pazienti complessi in tempi utili.

Intanto, mentre si continua a parlare di prevenzione, solo il 5% del Fondo sanitario nazionale viene oggi destinato a questa voce, contro un minimo raccomandato dell’8%. E nel 35,19% dei reparti, tra l’11% e il 20% dei ricoveri si potrebbero evitare semplicemente correggendo gli stili di vita, migliorando l’aderenza agli screening e promuovendo le vaccinazioni.

Insomma, quella che era la Medicina interna – lo spazio della cura, del monitoraggio, della diagnosi attenta e multidisciplinare – rischia di trasformarsi in un parcheggio caotico dove si ammucchiano pazienti sempre più gravi e operatori sempre più soli. Un sistema che resiste grazie alla professionalità e alla tenacia di chi ci lavora, ma che non può andare avanti così ancora a lungo.

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Italia, la sanità dei corridoi

di un giornalista indignato (come dovrebbe esserlo chiunque legga questi dati)

Ci sono immagini che raccontano più di mille convegni, più di qualunque relazione ministeriale, più di ogni promessa sul Pnrr: sono quelle delle lettighe nei corridoi, dei pazienti anziani lasciati ore – o giorni – dietro un separé, in attesa che si liberi un letto. Non siamo in un paese colpito da una guerra o da un'epidemia improvvisa. Siamo nell’Italia del 2025. Quella che si vanta della sua eccellenza sanitaria, ma che ogni giorno scarica i più fragili negli angoli di un ospedale trasformato in magazzino umano.

Reparti di Medicina interna in overbooking, dice l’indagine Fadoi. Nel 58% dei casi, si supera il 100% di occupazione. Tradotto: non ci sono più letti, ma i pazienti continuano ad arrivare. C’è chi dorme su una barella. Chi aspetta ore per una diagnosi. Chi muore senza mai aver visto una stanza. Altro che privacy, dignità, accoglienza. Basta un paravento per placare le coscienze e fingere che tutto sia “in gestione”.

Ma c’è di peggio. C’è il paradosso istituzionale. I reparti più pieni, quelli che reggono il peso degli anziani, dei cronici, dei fragili, vengono classificati come “a bassa intensità di cura”. Una definizione che sembra uscita da una barzelletta burocratica. La conseguenza? Meno personale, meno strumentazioni, meno attenzione. Perché per lo Stato, evidentemente, chi ha bisogno tutti i giorni di cure complesse vale meno di chi arriva d’urgenza e riparte dopo due ore.

La verità è che la Medicina interna – la vera trincea della nostra sanità – è diventata il tappeto sotto cui si nasconde tutto ciò che non funziona nel sistema sanitario nazionale. Gli anziani non possono tornare a casa perché fuori non c’è un’assistenza dignitosa? Dentro. Le strutture territoriali non sono pronte a prenderli in carico? Dentro. La prevenzione è parola da campagna elettorale? Dentro. Dentro l’ospedale. Dentro un reparto che affoga.

E sì, è tutto collegato. Quando il 35% dei ricoveri si potrebbe evitare semplicemente investendo di più in prevenzione e sanità territoriale, non siamo più davanti a un problema sanitario, ma a un fallimento politico. Quando un internista su due non ha più il tempo di fare ricerca, significa che abbiamo smesso di guardare al futuro. Quando l’85% dei reparti denuncia una carenza di personale, vuol dire che nessuno ha pianificato il domani. E quando il numero dei letti per abitante è meno della metà di quello tedesco, significa che a decidere non è stata la medicina, ma l’economia dei tagli.

Ora il ministro della Salute annuncia un nuovo Decreto Ministeriale. Un altro. Promette di rivedere gli standard, di correggere le storture, di “non trattare più la Medicina interna come un serbatoio per coprire le falle sociali”. Bene. Ma ci permetta, ministro Schillaci: non bastano le intenzioni. Perché lo sentiamo dire da anni. Ogni governo ha detto che avrebbe rilanciato la sanità pubblica. Ogni ministro ha giurato che la medicina territoriale era il futuro. Intanto la gente continua a morire nei corridoi.

E allora basta giri di parole. Basta con le conferenze stampa rassicuranti. La realtà è brutale: il Servizio Sanitario Nazionale è diventato un luogo in cui i fragili vengono parcheggiati, non curati. In cui i medici resistono, non lavorano. In cui si galleggia, in attesa della prossima emergenza per poter dire “non si poteva prevedere”.

Lo dico con amarezza e rabbia: se non si investe adesso, se non si corregge davvero questa deriva, ci troveremo presto a scrivere necrologi istituzionali. Di un sistema che è stato pubblico, universale, gratuito. E che ora sta morendo di indifferenza.

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