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10 Maggio 2025 - 10:29
Ahmadreza Djalali
Ha chiamato la moglie da una cella del carcere di Evin, a Teheran. La voce debole, il cuore in affanno. Ahmadreza Djalali, medico e docente universitario di origine iraniana con cittadinanza svedese, ha comunicato di aver subito un infarto. Una notizia che scuote e allarma, ma che non sorprende: da nove anni il ricercatore è rinchiuso in condizioni durissime, condannato a morte con l’accusa di spionaggio per Israele, in un processo che da più fronti è stato definito ingiusto e manipolato.
Djalali non è un nome qualunque in Italia: tra il 2013 e il 2016 è stato ricercatore capo presso il CRIMEDIM, il Centro di Ricerca in Medicina di Emergenza e delle Catastrofi dell’Università del Piemonte Orientale, a Novara. Una mente brillante, dedita allo studio della gestione sanitaria in situazioni di crisi, catastrofi e guerra. Tanto che la città piemontese, per non lasciarlo solo nel silenzio del carcere iraniano, gli ha conferito la cittadinanza onoraria. Un gesto simbolico, ma potente.
L’infarto di queste ore rende ancora più urgente l’intervento della comunità internazionale. Amnesty International ha lanciato un nuovo appello alle autorità iraniane, chiedendo che Djalali riceva immediatamente cure adeguate, comprese visite cardiologiche specialistiche. Non si tratta di un banale malessere: si tratta della salute – e della vita – di un uomo che, secondo il diritto internazionale, non avrebbe mai dovuto essere incarcerato.
Condannato a morte nel maggio 2022, Djalali può essere giustiziato in qualsiasi momento, secondo la legge iraniana. L’ultimo appello dei suoi legali è stato respinto. Ogni giorno in più può essere l’ultimo. E questo da anni. Secondo Amnesty, la sua detenzione non è solo una punizione: è una strategia di pressione politica, parte di una logica più ampia, in cui i cittadini iraniani con doppio passaporto diventano ostaggi di Stato, pedine da scambiare in trattative con l’Occidente. Una logica brutale, cinica, che usa la vita umana come leva diplomatica.
Djalali era rientrato in Iran nel 2016 su invito delle Università di Teheran e Shiraz per tenere una serie di lezioni. Lì è stato arrestato dal Ministero dell’Intelligence. Le accuse? Collaborazione con Israele, spionaggio, tradimento. Accuse mai dimostrate, basate su confessioni che, secondo il diretto interessato, sarebbero state estorte con la minaccia della tortura.
Il 25 aprile 2025 ha segnato il nono anniversario della sua detenzione. Nove anni di isolamento, privazioni, rinvii, paura. E ora, un infarto. La sua storia è diventata un simbolo della lotta per i diritti umani, un richiamo costante alla necessità di non chiudere gli occhi di fronte alle violazioni più gravi. Chi lo conosce lo descrive come un uomo di pace, di scienza, di speranza.
Oggi più che mai, la voce di chi lo ricorda e lo sostiene deve farsi sentire: dalle aule accademiche alle istituzioni, dalla città di Novara ai parlamenti europei. Non si tratta solo di salvare Ahmadreza Djalali. Si tratta di difendere un principio di civiltà, quello per cui nessuno dovrebbe essere condannato a morte – e lasciato morire – per aver svolto il proprio lavoro, per aver attraversato confini, per aver parlato con il mondo.
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