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Mistero senza fine: l'enigma della scomparsa di Momcilo Bakal tra torbide acque e traffici oscuri

Intrighi e sparizioni: il mistero irrisolto di Momcilo Bakal tra ombre criminali e doppi giochi nel Nord Italia

Nove anni di enigmi: la misteriosa scomparsa di un uomo tra ombre e silenzi in Piemonte

Nove anni di enigmi: la misteriosa scomparsa di un uomo tra ombre e silenzi in Piemonte

È il 2016, estate inoltrata. Momcilo Bakal, per tutti “Momo”, 44 anni, ex militare bosniaco, titolare di una ditta di commercio di legname, esce dalla sua abitazione a Mappano, comune dell’hinterland torinese. Cammina, sale in auto, e poi si dissolve. Svanisce. Letteralmente. Nessuna chiamata, nessun testimone, nessun allarme. Almeno all'inizio.

Passano i giorni. Le settimane. E solo il 9 settembre, quasi due mesi dopo, la sua compagna si presenta dai carabinieri per denunciarne la scomparsa. Nel frattempo, lei è tornata a Locri, in Calabria, lasciando dietro di sé una casa vuota e una scia di domande. Una denuncia tardiva che, più che portare chiarezza, solleva dubbi. Troppi.

Le indagini partono tardi, ma partono. E si fanno incessanti, ossessive, senza tregua. A occuparsene è la Procura di Ivrea, con il supporto dei carabinieri di Leinì. Fin da subito, gli inquirenti temono il peggio: omicidio. Il problema è che non c’è niente. Nessuna scena del crimine, nessun corpo, nessuna traccia del veicolo. Nulla. Una sparizione perfetta, in un contesto urbano reale, tangibile, popolato.

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Eppure, alcuni indizi iniziano ad affiorare. I cani molecolari seguono piste flebili, i militari setacciano garage, capannoni, fossi, canali. Fino a quando l’attenzione si concentra su un luogo simbolico: il laghetto artificiale della Falchera, periferia di Torino. È un angolo di abbandono, dove l’erba cresce troppo alta e l’acqua troppo torbida. Qui vengono ritrovate due auto, ma nessuna è quella di Bakal. Lui no, non c’è. Neanche lì.

Poi, qualcosa si muove. Una nuova pista: un magazzino a Settimo Torinese, di proprietà dello stesso Momcilo. Una perquisizione. E sul pavimento, tra il legname accatastato e gli attrezzi dimenticati, emergono oggetti personali. Il portafoglio, la carta d’identità, la patente, perfino il passaporto. Tutto, tranne una cosa: il cellulare, l’unico vero compagno inseparabile di chiunque nel ventunesimo secolo. L’assenza del telefono è assordante.

Chi ha lasciato quei documenti lì? È stato Momo? È tornato in quel magazzino, magari ferito, per lasciare un messaggio? Oppure qualcuno li ha depositati intenzionalmente, per depistare, per costruire una falsa traccia?

Le domande si moltiplicano. Le risposte no.

Ma la vicenda prende un’altra svolta quando nel registro degli indagati vengono iscritti due uomini croati, padre e figlio, residenti proprio alla Falchera. I due sono gli ultimi ad aver visto vivo Bakal. Il figlio viene sentito dagli inquirenti: ammette di aver utilizzato le carte di credito di Momcilo, sostiene di averlo fatto su indicazione del padre per pagare dei lavoratori. Una versione traballante, che lascia perplessi.

Nel frattempo, il padre è in Serbia, ufficialmente per motivi di salute. In pratica, fuori dalla portata della giustizia italiana. E a questo punto, il mistero si infittisce. Perché attorno a Bakal non ci sono solo le ombre della scomparsa, ma anche quelle della criminalità organizzata, di piccoli traffici, di affari sporchi tra l’Est Europa e il Nordovest italiano. Si parla di giri di materiale edile rubato, di depositi usati per scambi opachi, di frequentazioni pericolose. Ma sono solo voci, indizi che non si saldano mai in una prova.

Leinì, che sembrava essere solo un tranquillo paese dormitorio, diventa teatro silenzioso di una doppia assenza: quella del corpo e quella della verità. La scomparsa di Bakal resta lì, appesa. Nessuno lo vede. Nessuno lo sente. Nessuno lo cerca più, se non gli investigatori e il figlio di Momo, che non ha mai smesso di credere che qualcosa, un giorno, verrà alla luce.

Nel 2020, mentre l’Italia combatte un’altra battaglia, quella contro il virus, qualcuno a Leinì si chiede ancora: che fine ha fatto Momcilo Bakal? La risposta non è arrivata allora, e non è arrivata nemmeno oggi. Nove anni dopo.

È come se la terra lo avesse inghiottito, come se qualcuno avesse trovato il modo di cancellare ogni traccia, con una precisione chirurgica, con una freddezza da manuale criminale. Gli investigatori lo sanno: è quasi impossibile far sparire così una persona, eppure è successo. La verità si nasconde in una crepa, in una fessura che forse un giorno qualcuno troverà il coraggio di aprire.

Fino ad allora, il fantasma di Bakal continuerà ad aggirarsi tra Mappano, Settimo e Falchera, tra il rumore dei camion del legname e il silenzio dei capannoni abbandonati. E il suo nome resterà lì, nei faldoni della procura di Ivrea, come un grido muto che chiede giustizia.

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