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Asili nido, il privilegio resta: a Settimo comanda la casta

Nel nuovo regolamento voluto dalla maggioranza PD, i figli dei dipendenti comunali hanno una corsia preferenziale. Le proteste ignorate, la supponenza della sindaca Elena Piastra e la lezione di democrazia a senso unico: se sei dentro il Palazzo, hai più diritti degli altri

Elena Piastra e Cinzia La Rosa

Elena Piastra e Cinzia La Rosa

C’è una linea sottile — anzi, neanche tanto sottile — che divide la giustizia sociale dal privilegio. Una linea che l’Amministrazione comunale di Settimo Torinese, guidata dalla sindaca Elena Piastra, ha deciso scientemente di ignorare. La polemica scoppiata intorno al nuovo regolamento per l’accesso agli asili nido è l’ennesima dimostrazione di come il potere, anche quando si proclama dalla parte dei più deboli, finisca spesso col tutelare sé stesso. O, peggio ancora, i suoi.

Tutto nasce da un post pubblico su Facebook, puntuale e sferzante, di Cinzia La Rosa, che denuncia — con toni amari e indignati — come i figli dei dipendenti comunali abbiano un canale preferenziale per l’accesso al nido, a discapito di famiglie fragili o monogenitoriali. E la risposta della sindaca non si è fatta attendere. Secca, lunga, documentatissima e... altamente supponente. Il solito monologo da maestrina con la penna rossa, quello che da anni accompagna ogni critica all’indirizzo di Palazzo Civico. Una risposta che non lascia spazio al dubbio, ma solo al dogma: “voi non capite, noi sì”. Una risposta che si chiude con l’immancabile lezione di morale, condita da attacchi personali, vittimismo e una buona dose di autosantificazione.

la risposta

Ma il punto vero è un altro. Cinzia La Rosa ha colpito nel segno: non è accettabile che un regolamento nato per stabilire criteri di equità venga alterato introducendo un privilegio di casta. Perché di questo si tratta: un privilegio. Un “premietto” riservato a chi lavora dentro il Palazzo. È come quando si mettono le strisce blu in centro città ma si decide che i dipendenti comunali non devono pagarle perché “lavorano lì”. È sempre lo stesso schema: si crea un’eccezione per chi fa parte del sistema, per chi siede al caldo della macchina pubblica. Il cittadino comune, invece, paga. E se protesta, gli si dà dell’ignorante.

Il regolamento, approvato con piglio trionfante dalla maggioranza di centrosinistra, è stato raccontato come un capolavoro. Peccato che a chiederne il miglioramento siano stati in molti. Tra questi il consigliere di Fratelli d’Italia Enzo Maiolino, che per ben tre volte ha proposto — inascoltato — di inserire in cima alla graduatoria i nuclei monogenitoriali con un genitore deceduto. Ma niente. La sindaca Piastra e la sua maggioranza hanno tirato dritto, con la sicumera di chi pensa che ogni osservazione sia fastidio, ogni voce contraria sia strumentale, ogni critica sia un attacco personale.

Il tutto condito con numeri che dovrebbero rassicurare (“sono solo cinque bambini”) ma che, in realtà, certificano proprio la presenza di una deroga di principio. Perché anche un solo posto assegnato sulla base del tesserino da impiegato comunale è uno schiaffo al principio di equità.

Il Partito Democratico, che si erge da sempre a paladino della giustizia sociale, dovrebbe arrossire. Ma non lo fa. E anzi, affida alla sindaca un messaggio che suona come una replica piccata da social media manager più che come una riflessione politica. E proprio qui sta il punto dolente: nel tono. Quel tono arrogante, paternalista, autoreferenziale che Elena Piastra adotta ogni volta che qualcuno osa sollevare un dubbio. Quel tono da “io sono io, e voi non siete un...”— citazione perfetta, visto che molti, leggendo, hanno subito pensato a una versione femminile del Marchese del Grillo.

Insomma, qui non si discute solo di un regolamento. Si discute della filosofia del potere. Di chi lo esercita e per chi. Di chi scrive le regole e di chi le deve subire. Di chi pensa che la politica debba servire a garantire più diritti per tutti e di chi, invece, la utilizza per preservare piccoli privilegi di chi sta dentro il palazzo. E a nulla valgono le spiegazioni chilometriche, i rimandi alla “bella intitolazione del nido” o alle guerre nel mondo. Qui si parla di una scelta politica, fatta nel silenzio di una commissione in cui la voce della minoranza è rimasta inascoltata. E poco importa se il privilegio non è stato usato, o se “c’era già da trent’anni”. Proprio per questo, andava eliminato. Punto.

Questa vicenda è l’ennesima occasione mancata per costruire una comunità veramente equa, dove nessuno è più figlio di qualcun altro. E dove, per una volta, chi governa possa rispondere senza salire in cattedra.

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