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15 Aprile 2025 - 11:45
Elena Piastra
Fiato alle trombe, rullo di tamburi, Settimo Torinese è finalista tra le Capitali europee dell’inclusione e della diversità 2025.
Lo ha annunciato trionfalmente la sindaca Elena Piastra, con un post su Facebook che, come da tradizione, non parla tanto ai cittadini, quanto alla comunità virtuale in cerca di buone notizie e orgoglio da condividere.
Tant'è!
Settimo, secondo la Commissione Europea, sarebbe dunque un modello di inclusione. Lo sarebbe per le sue politiche sulla disabilità, sull’accoglienza, sulla parità di genere, per il contrasto alle discriminazioni, in particolare verso la comunità LGBTQI+. Insomma una città esempio. Una città che emoziona.
Peccato che tutto questo sia solo sulla carta. O meglio: solo su Facebook.
Perché chi a Settimo ci vive davvero, chi ci si muove ogni giorno, chi prova ad accedere ai servizi, chi frequenta le scuole, chi abita in periferia, fatica a riconoscere in questa narrazione patinata la città reale.
Una città dove i disabili devono ancora affrontare marciapiedi dissestati e rampe assenti. Dove frazioni e quartieri restano intere settimane senza illuminazione pubblica. Dove l’unico bagno pubblico è spesso chiuso, oppure semplicemente non c’è. Dove i genitori delle scuole chiedono, da anni, interventi veri sul fronte dei servizi educativi, non festival né foto opportunity. Dove gli “invisibili” sono sempre più numerosi, e sempre più abbandonati. E dove l’accoglienza si limita ai comunicati, mentre la rete reale dei servizi sociali è sempre più fragile, sorretta spesso dal volontariato e dalle associazioni, non certo da un’amministrazione che predilige i riflettori alle risposte. Dove si è riusciti a spendere migliaia di euro per coltivare grano in un terreno confiscato alla mafia per produrre qualche chilogrammo di farina da "regalare" agli indigenti...
Eppure Settimo è tra le finaliste. Insieme a città come Parigi, Utrecht, Braga, Cracovia, Bilbao. Città europee che investono realmente in inclusione, con politiche strutturate, piani di edilizia pubblica accessibile, trasporti efficienti, spazi pubblici pensati per tutti, non per pochi.
Luoghi in cui le parole “diversità” e “uguaglianza” non sono slogan, ma azioni. Dove l’urbanistica parla lo stesso linguaggio della solidarietà, e dove le giunte comunali non si limitano a dichiarare, ma operano.
A fianco a queste realtà, compare Settimo Torinese, candidata con lo stesso entusiasmo con cui ci si propone per ospitare un festival dell'innovazione per pochi intimi.
Una candidatura costruita su un dossier redatto a regola d’arte, dove ogni parola chiave è ben piazzata, dove l’inglese strategico – inclusion, diversity, equality – fa da tappeto sonoro a una città che, nel quotidiano, arranca tra i problemi ordinari.
La sindaca chiude il suo post con un “siamo già molto orgogliosi, a prescindere da come andrà a finire”.
E qui, finalmente, un po’ di verità. Perché il punto non è vincere. Il punto è apparire. Il premio, in fondo, serve solo a confermare il racconto, a consolidare la narrazione. Una narrazione che da anni copre, imbellettandoli, i difetti di una gestione amministrativa che comunica bene, ma interviene male.
La verità è che a Settimo, l’inclusione è un’idea, non una pratica. È una parola pronunciata con convinzione, ma che non trova corrispettivo nei marciapiedi, nei servizi, nei quartieri. A Settimo, l’unica inclusione realmente praticata è quella delle promesse, delle vetrine istituzionali. Inclusi sono tutti: i comunicati, le newsletter, le conferenze, gli eventi, i percorsi partecipativi con lo sponsor. Ma restano esclusi i bisogni più semplici, quelli che non portano like, né premi, né articoli sui siti delle istituzioni europee.
Tra le piccole città in gara, spiccano anche Francavilla Fontana, Gualdo Tadino, Sogliano al Rubicone. Alcune hanno scelto di candidarsi anche per il premio dedicato all’housing inclusivo. Settimo no. Nonostante negli ultimi anni la questione abitativa sia diventata sempre più urgente, con famiglie che attendono una risposta, cittadini in emergenza abitativa, e case popolari lasciate nel limbo.
Ma anche qui, meglio non alzare il velo. Meglio non rischiare. Meglio restare sulla superficie liscia della comunicazione istituzionale. Quella che funziona benissimo a Bruxelles, ma molto meno a Borgo Nuovo.
Chi vive questa città lo sa: i progetti sono tanti, ma i risultati si fanno attendere. Gli annunci non mancano, ma gli effetti sono minimi. Le panchine vengono riverniciate, sì, ma solo in centro. I quartieri periferici restano periferici anche nelle attenzioni. I problemi vengono raccontati con toni rassicuranti, fino a svanire. Un modello perfetto, ma solo nella realtà aumentata dei social. E in effetti, forse è proprio questo il vero merito riconosciuto dalla Commissione Europea: la capacità di costruire un racconto. Di far sembrare inclusivo ciò che, nei fatti, esclude. Di rendere presentabile ciò che altrove non verrebbe nemmeno menzionato. L’arte di impacchettare. L’estetica della politica.
Ma la verità è che l’unica cosa che a Settimo oggi è davvero inclusiva è la rassegnazione. La sensazione diffusa che la distanza tra chi amministra e chi vive sia diventata incolmabile. Che ogni premio, ogni riconoscimento, serva più a rafforzare un’immagine che a migliorare una condizione. Che l’Europa, come spesso accade, premi ciò che appare, non ciò che funziona. E che mentre altrove si costruisce l’inclusione pezzo dopo pezzo, qui la si evoca con hashtag e proclami.
Il 29 aprile sapremo se Settimo vincerà. Ma in fondo, poco importa. Perché il vero premio è già stato assegnato: alla narrazione. E a perdere, ancora una volta, saranno quelli che quella narrazione non la scrivono, ma la vivono.
Tutti i giorni. In silenzio. E, molto spesso, da soli.
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