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Ivrea, la censura è servita: La Fenice resta chiusa. Zittiti i detenuti, espulsi i volontari

Da novembre 2024 il giornale del carcere non esiste più. La direttrice lo ha spento per “motivi tecnici”. In realtà, dava fastidio perché raccontava la verità

Ivrea, la censura è servita: La Fenice resta chiusa. Zittiti i detenuti, espulsi i volontari

Carcere

“Destano perplessità le voci che si colgono nell’ambiente penitenziario di tentativi e iniziative per imporre o vietare la sottoscrizione dei contributi di redattori detenuti alla ‘stampa’ nel carcere, o sulla lettura preventiva di quei contributi”.
A parlare chiaro è Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia. Perplessità? No. Qui c’è da provare indignazione, non esitazione. Perché se il carcere è – o dovrebbe essere – il luogo dove si espia ma anche si cambia, si riflette, si rinasce, allora non può diventare il luogo dove si perde anche il diritto di pensare, di raccontare, di firmare il proprio nome sotto la propria verità.

E invece, a Ivrea, è successo.

Hanno spento La Fenice. Non un fuoco, ma una voce. Non una testata qualsiasi, ma il giornale del carcere, scritto da chi sta dentro, da chi paga per i propri errori, ma non ha smesso di cercare un senso, di cercare uno spazio dove essere di nuovo persona. Dal gennaio scorso, quella voce è stata zittita. La redazione è stata chiusa, gli incontri annullati, i computer sequestrati, i volontari dell’associazione Rosse Torri lasciati fuori dai cancelli.

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Motivo ufficiale? Verifiche tecniche, dice la direttrice Alessia Aguglia.
Motivo vero? I testi pubblicati “danneggiano l’immagine del carcere”.

Ma danneggiano davvero? O piuttosto illuminano? La Fenice raccontava quello che in molti preferiscono non vedere. Celle con muffa, finestre sbarrate con griglie arrugginite, acqua calda che non arriva, letti sfondati, spazi invivibili, dignità calpestate. Raccontava la quotidianità dei reclusi, fatta non solo di numeri di matricola, ma di paure, di pensieri, di desiderio di riscatto.

Parole che graffiano, certo. Ma non per odio. Perché vere. Perché scritte da chi ci vive dentro, ogni giorno, ogni notte. E in carcere la verità, quella vera, fa più paura di un’evasione. Fa più rumore di una sommossa. Perché mette in crisi la narrazione rassicurante dell’Istituzione, quella dove “va tutto bene, stiamo rieducando, stiamo offrendo opportunità”. Quando poi l’unica cosa che si concede davvero è il silenzio.

Così si comincia con le piccole censure: prima si vieta ai detenuti di firmare i propri articoli, come se la dignità passasse anche da lì, dal nome. Poi si accusa la redazione di “immagine negativa”. Poi si chiude tutto. Si chiude per evitare domande. Per paura del riflesso che La Fenice rimandava ogni volta che andava online.

È censura. È controllo. È potere che non accetta critiche.

Francesco Lo Piccolo, giornalista e direttore del trimestrale Voci di dentro, lo dice senza mezzi termini: “I detenuti vengono trattati come reati che camminano. Non hanno voce, non hanno diritti. E chi cerca di restituirglieli viene escluso, zittito, spinto fuori”. È accaduto anche a Lodi, a Rebibbia, a Trento. Sempre la stessa sceneggiatura: giornali interni chiusi, volontari dichiarati “non graditi”, argomenti proibiti, articoli vagliati prima della pubblicazione.

È il paradosso italiano: si cita la Costituzione quando fa comodo, poi si calpestano articoli fondamentali come il 21, che garantisce la libertà di espressione, o il 27, che parla di rieducazione, non di annientamento. Perché senza voce, senza possibilità di raccontarsi, di riflettere, di comunicare con il mondo fuori, che rieducazione è?

Scrivere non è un passatempo. In carcere, scrivere è un atto di resistenza. È un modo per non scomparire, per non essere solo un numero o un errore del passato. È un tentativo, disperato e autentico, di tornare umani. Ecco perché La Fenice dava fastidio. Perché non era un bollettino docile, non era l’ufficio stampa della direzione. Era un giornale vero. Con articoli firmati, opinioni libere, storie autentiche.

E allora, diciamolo con forza: chiudere La Fenice è stato un errore. Un atto grave, simbolico, che segna una deriva pericolosa. È il segno di un sistema che ha paura della parola. Di un’Istituzione che pretende obbedienza e silenzio. Di un Paese che si definisce garantista, ma poi imbavaglia proprio chi avrebbe più bisogno di raccontarsi.

No, la stampa non può essere soggetta a censura. Nemmeno, e forse soprattutto, dietro le sbarre.

E allora finché ci sarà anche un solo detenuto che vorrà raccontare la sua storia, un volontario disposto ad ascoltarla, un giornalista pronto a darle voce, La Fenice – anche se chiusa – non sarà mai davvero morta.

Rinascerà. Come ogni volta che qualcuno, anche nel buio, sceglie di scrivere la verità.

E chiudiamo con Sandro Pertini: “Negare la libertà a chi ha sbagliato è negare la possibilità stessa del riscatto.” 

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