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02 Marzo 2025 - 17:41
Dal Canavese a Dakar: la corsa estrema vissuta da padre e figlio
Che la ex Parigi-Dakar (ora semplicemente Dakar) sia una corsa mitica lo sanno tutti, anche i non sportivi. Che vi partecipino da anni dei cuorgnatesi, questo forse era meno noto. Lo si è scoperto grazie al primo incontro della serie “Sport al centro”, tenutosi la sera di mercoledì 19 febbraio a Cuorgnè nell’ex-Chiesa della Trinità.
A raccontare le proprie esperienze sono stati Michele e Pietro Cinotto, padre e figlio, presentati dalla giornalista Daiana Girot. Il vicesindaco ed assessore allo Sport Vanni Crisapulli, portando il saluto del sindaco Giovanna Cresto, ha ricordato come la presenza di Michele Cinotto nel mondo dei rally risalga addirittura al 1978 correndo sulla 112 Abarth. Due anni più tardi vinse il trofeo omonimo e – come ha spiegato egli stesso – “nell’‘81 divenni pilota professionista per l’Audi. Scelsero me perché ero giovane: così, se le cose fossero andate male, sarebbe stata colpa mia; se fossero andate bene il merito sarebbe stato attribuito al veicolo!” Fu un’esperienza intensa e ricca di soddisfazioni ma anche totalizzante. “Farlo per hobby è un divertimento, come dipendente professionista è molto impegnativo. Se mi telefonavano per dirmi: «Domani devi andare in Grecia a provare un veicolo» ovviamente dovevo essere pronto a partire e ad un certo punto decisi di cambiare vita: nel 1984 smisi. A ripensarci è incredibile quanta gente seguisse i rally a quel tempo… e quanto la sicurezza fosse trascurata”.
La passione si risvegliò vent’anni più tardi, quando anche i suoi figli Pietro e Carlo scelsero di correre: “I rally però si erano trasformati: erano molto diversi e meno emozionanti”.
Così ecco l’approdo alla Parigi-Dakar, la corsa ideata nel 1979 dal francese Thierry Sabine, che partiva dalla capitale francese per terminare sempre in quella del Senegal, pur con percorsi differenti anno per anno. Nel 2008 però la competizione venne annullata poche ore prima della partenza per il rischio di attacchi terroristici in Mauritania e l’anno successivo venne spostata in Sudamerica. Lì rimase per un decennio, coinvolgendo dapprima Cile e Argentina con un percorso ad anello, poi con un tracciato da costa a costa, mentre nel 2019 si svolse tutta in un’unica nazione: il Perù. Dal 2020 il teatro è Arabia Saudita e lì rimarrà sicuramente a lungo, grazie al potere finanziario del regno. Il nome – già precedentemente variato in Dakar e basta – è rimasto quello, ma l’Africa non c’entra più nulla. Cambiando le zone geografiche sono variate molto anche le caratteristiche della corsa che resta però sempre faticosissima, rischiosa ed affascinante.
Un discorso a parte meriterebbe il suo impatto sul delicato ambiente del deserto, ma non era un tema della serata.
Alla competizione partecipano auto, motociclette, autocarri, quad, prototipi ed i piloti possono essere tanto dei professionisti che semplici appassionati.
“Cercherò di spiegare” – ha esordito Michele Cinotto – “cosa sia, come si svolge e quali emozioni offre. È dura, durissima, respiriamo polvere dalla mattina alla sera in condizioni climatiche estreme, però per 15 giorni si è completamente fuori dal mondo e i posti sono fantastici… anche se lo erano di più in Sud America, dove si passava dai 5.000 metri delle Ande al livello del mare”.
Le condizioni ambientali ovviamente rendono tutto più difficile. Ha raccontato suo figlio: “Quest’anno abbiamo dovuto affrontare pioggia, freddo, nebbia, non proprio quel che ci si potrebbe aspettare in quel tipo di ambiente. Nel primo anno in Sud America invece, correndo dentro un’auto chiusa, ci si ritrovava a 50°”.
Si parte al mattino molto presto e si arriva al calar del sole… se va bene, percorrendo 600-700 chilometri e 400 nelle Tappe Speciali. Dopo 6 o 7 giorni ce n’è uno di riposo, ma – hanno spiegato – “se fisicamente è utile, dal punto di vista psicologico no perché poi è come se si ricominciasse tutto da capo”.
Fatica, tensione, timori di doversi fermare, sono il motivo conduttore di tutte le tappe. “Nell’Arabia meridionale” – ha spiegato il signor Michele – “le dune sono tantissime e tanto alte. Quelle lunghe, oltre ad impegnare il conducente, sollecitano molto di più la vettura per quanto riguarda il motore e le sospensioni. Vai a vista, a causa della polvere: devi improvvisare”.
Gli ultimi trenta, venti, dieci chilometri sono terribili perché hai paura di tutto. Basta poco per danneggiare l’auto e doversi fermare a quel punto è davvero la cosa più brutta.
Il bivacco è un luogo in cui si raccontano le proprie esperienze e ci si confronta, ma – ha precisato Pietro Cinotto – “noi piloti non lo viviamo affatto. Partiamo al mattino presto, arriviamo sempre dopo le 9 -10 di sera, ceniamo, partecipiamo al briefing in cui ci spiegano la tappa successiva e le sue difficoltà ed andiamo a dormire”.
Ha anche spiegato che il momento più emozionante della Dakar è l’arrivo. “Riuscire a concludere la gara è la soddisfazione più grande. La partenza lo era molto di più in Sudamerica: a Buenos Aires c’era un milione di persone a vederci e la gente ci fermava per strada. In Arabia Saudita la corsa è poco sentita”.
Ha aggiunto il padre: “In questi anni la situazione è leggermente cambiata ma vengono a vederci soprattutto turisti. Del resto attraversiamo zone spopolate, guidando per ore nel nulla”.
La domanda inevitabile posta ai due piloti è se meriti affrontare un’impresa tanto impegnativa. La risposta è stata la stessa per entrambi. Il padre ha precisato: “Non penso mai che mi ritirerò da quella gara ma che sarà l’ultima volta in cui vi partecipo. Lo dico tutte le volte e poi ci ricasco ma, a parte i professionisti, che lo fanno per mestiere, tutti i piloti che ho conosciuto provano gli stessi sentimenti”.
Il figlio ha aggiunto: “Ti diverti prima e dopo la gara, non durante, ma inevitabilmente ci riprovi”.
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