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Ivrea

Ilaria ce l'ha fatta! Fine di un calvario

Una vita oltre il Saudino: la liberazione di Ilaria e la lotta di Ciriaco per un’esistenza dignitosa

Ilaria Aragona e Patrizia Dal Santo

Ilaria Aragona e Patrizia Dal Santo

Ha suonato il campanello. “Ilaria sono io. Patrizia Dal Santo, l’assessore. Ho le chiavi!”.

E la porta si è aperta. Si sono guardate negli occhi. Un sospiro. Due sospiri. Poche parole. Qualche lacrima. Un abbraccio. Sincero.  Fine di un incubo. “Ce l’abbiamo fatta! Andrai via da qui” ha sussurrato l'assessora. Ebbene sì.

Dopo anni di sofferenze e di appelli che rimanevano lettera morta, Ilaria ce l’ha fatta. Andrà via da qui, dal condominio Saudino. 

Il 9 settembre scrivevamo che finalmente l’ATC aveva dato l’ok al cambio alloggio. Poi è arrivata la firma del contratto e adesso? 

Ilaria andrà a vivere a Torre Balfredo, al piano terreno di un edificio che dispone anche di giardino, ideale per lei e per le sue esigenze di donna malata, inabile al lavoro e costretta a vivere attaccata a una bombola d’ossigeno.

La sua è la storia di una vita devastata dal Covid-19, che le ha lasciato danni respiratori permanenti, imprigionandola in un corpo che non riconosce più. 

“Voglio tornare a vivere”, ci aveva detto fin dalla prima intervista. Lo aveva detto a noi e ad alcuni consiglieri comunali. A Massimiliano De Stefano e Paolo Noascone che subito si erano mossi con una mozione discussa a porte chiuse. E poi una seconda intervista. E poi una terza. E poi una quarta. Fino allo sfinimento. E poi le telefonate. 

“Non ce la faccio più! Aiutatemi…”. “Io non sono così. Sono un’altra persona…”.

Perchè fino ad oggi, vivere, per Ilaria, ha significato sopravvivere in condizioni disumane.

Ottavia Mermoz

Ottavia Mermoz

Ilaria, prigioniera nel suo appartamento. Ogni movimento una fatica, ogni giorno una lotta contro una realtà che non le ha mai dato tregua. Uscire di casa? Un’impresa titanica. Il suo appartamento? Un buco di 30 metri quadrati, con un bagno troppo stretto per consentirle di muoversi agevolmente. Non era e non è un problema di poco conto. 

È anche una questione di igiene, e senza igiene i problemi fisici si sommano a quelli già esistenti, e le condizioni di salute si aggravano ancora di più.
“Avete capito bene: chiedo solo una doccia”, s’era lanciata in un appello quest’estate. Non era un capriccio, ma una richiesta di dignità che vale per lei e vale per tutti. Una richiesta semplice, così basilare, che non poteva scendere a patti con l’indifferenza.

Nell’appartamento a fianco vive Ciriaco Impieri 68 anni. Anche il suo è un caso disperato.

Ad agosto, la mazzata. Gli hanno sospeso la patente. “Non ci vedi più…” gli han detto.  Non sarà l’inferno, ma poco ci manca. Isolato dal resto della città, una strada in discesa, nessuna anima viva intorno.
“Nel 2014 ho avuto un’operazione brutta: un tumore al cervello...” - si lascia andare Ciriaco - “L’occhio destro è bruciato e sto perdendo la vista anche dall’altro occhio. Abitare qui significa spostarsi con la macchina... C’è un autobus che a volte viene, a volte no... Sono disperato”.

Ciriaco Impieri

Ciriaco è invalido al 75%, ma ha già presentato domanda per un aggravamento e quasi sicuramente quel 75 diventerà 100.
“Sono quasi cieco e ho anche dei problemi di deambulazione” dice, quasi mettendosi a piangere.
L’assistente sociale ha relazionato tutto, e lui, lo scorso venerdì, si è presentato in Municipio per chiedere un cambio alloggio. Nessuna promessa, nessun conforto. “Mi hanno detto che inoltreranno la domanda all’ATC. Nulla di più!”.
Insomma, non hanno alzato le spalle, ma poco ci è mancato. L’impressione è che all’ufficio per gli affari sociali, sentire storie di disagio non sia esattamente una priorità.

“Il sindaco mi aveva promesso che sarebbe passato” - ci racconta Ciriaco - “Qui c’è un altro problema. Io quasi non accendo il riscaldamento eppure pago 120 euro al mese per 10 mesi. Fino al 2014 facevano i conteggi una volta all’anno, adesso non più. Cosa devo fare? Rivolgermi alla Finanza?!”
Tra i desiderata di Ciriaco, ora che la macchina non ce l’ha più, c’è l’acquisto di una carrozzina elettrica. Costa 4.900 euro, e sono troppi. “Le mie sorelle mi aiuterebbero per metà, manca il resto… Vedrò che fare…”.

Massimiliano De Stefano e Paolo Noascone

Massimiliano De Stefano e Patrizia Dal Santo

Il condominio Saudino, dove vivono Ilaria e Ciriaco, è composto da 12 alloggi, perlopiù monolocali e bilocali di proprietà del Comune, ma gestiti dall’ATC.  Non sono fatti per viverci stabilmente. Sarebbe il caso di venderli o di darli in gestione alla Caritas o alla Casa delle Donne, per gestire emergenze temporanee. E invece, sono diventati una trappola per chi, come Ilaria e Ciriaco, non hanno alternative.

Ha un ascensore che si guasta spesso, trasformando ogni volta l’edificio in una prigione senza vie di fuga. Ed è proprio in questi momenti che chi abita qui e ha problemi a deambulare si sente dimenticato e abbandonato.

La verità è che quegli alloggi erano stati destinati originariamente a persone di età superiore ai 65 anni, un vincolo che ha sempre creato problemi nell’assegnazione, come spiegò l’assessore Augusto Vino in un consiglio comunale del 2013. 

Gli anziani preferiscono vivere in città. Di rinunce ce ne sono sempre state a raffica e anche oggi quattro alloggi sono vuoti.

A rilanciare un’ipotesi di riutilizzo era stata, sulle pagine del nostro giornale, Ottavia Mermoz vicepresidente della Casa delle Donne, ex assessore comunale (dal 1998 al 2003) ai tempi di Fiorenza Grijuela, con delega alla cultura, al turismo e al commercio. 

Nel libro dei ricordi, i motivi per i quali il Comune aveva costruito quei mini alloggi per coppie di anziani e invalidi, proprio lì, attaccati a una RSA. Un disegno integrato che prevedeva servizi in comune, come infermeria, pasti, lavanderia, in un unicum funzionale.

Il progetto rimase a metà.
“Gli alloggi” - ci disse Mermoz - “vennero dati in gestione all’ATC, come tutti gli altri di proprietà comunale. Di fatto, abitazioni insufficienti e inadeguate, che invece di risolvere un problema, ne creavano altri. L’idea di utilizzarli per le esigenze contingenti della Caritas e della Casa delle Donne non è solo realizzabile, ma assolutamente praticabile. Come si dice oggi, ‘cantierabile’...”
Alla Caritas che affronta quotidianamente il problema dell’accoglienza di persone o nuclei familiari vaganti, l’emergenza dei senza diritti e permessi di soggiorno, esclusi dalle categorie di un welfare sempre più burocratico e che dispone di un asilo notturno per uomini soli o alla Casa delle Donne.

“Dopo il caso di Giulia Cecchettin che ha scosso coscienze e indifferenze” - metteva il dito nella piaga Mermoz - “da tutte le parti si invitano le donne a sottrarsi e sporgere denuncia, dimenticando che appena uscite dalla questura o dalla stazione dei carabinieri - scatti o meno il codice rosso - le donne non sanno dove andare. Non possono tornare a casa, dove troveranno un partner ancora più violento e vendicativo; hanno paura, e le volontarie con loro. Delle cause prevalenti dei femminicidi non esiste una statistica, ma è evidente che la denuncia è considerata dal partner violento il suggello di una convivenza, la via di fuga oggettiva, l’offesa imperdonabile cui rispondere con la forma estrema di violenza. L’ultimo definitivo atto del potere e del controllo sino ad allora esercitato. Molte donne non hanno una rete parentale di protezione, con l’aggravante della dipendenza economica se disoccupate o per non avere mai lavorato perché obbligate a badare alla casa e a occuparsi dei figli…”

La verità è che le case rifugio sono come una leggenda metropolitana: poche, gremite, lontane. Preferibilmente per mamme e bambini piccoli.

“I cani abbandonati in autostrada trovano comunque un canile. E gli esseri umani invece?” concludeva Mermoz.
Di tutta questa vicenda se ne è parlato in consiglio comunale grazie a una mozione che porta la firma del consigliere comunale Massimiliano De Stefano. 

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