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Riceviamo e pubblichiamo

Boicottare Israele: una scorciatoia pericolosa che puzza di antisemitismo

Un filosofo invita a non cedere alla demagogia e a riflettere su cosa significhi davvero "cultura"

Boicottare Israele: una scorciatoia pericolosa che puzza di antisemitismo

Riceviamo e pubblichiamo.

L’articolo del direttore Liborio La Mattina “l’Università di Torino boicotta Israele”, pubblicato su questo giornale il 20 marzo, in occasione della decisione del Senato accademico torinese di non aderire a un bando di partnership di ricerca con atenei israeliani, con tanto di studenti aderenti al collettivo “Cambiare rotta” che interrompono la riunione del medesimo Senato, mi dà lo spunto per un aggiornamento e qualche ulteriore riflessione.

È del 4 aprile la notizia secondo la quale l’università Bicocca di Milano respinge la proposta di boicottaggio degli studenti di “Cambiare rotta”.

La Rettrice e il Senato accademico non si sono fatti intimorire, a quanto pare, da una sparuta quanto chiassosa minoranza di studenti che non ha trovato sponda nel corpo docente, come invece è avvenuto all’Università di Torino.

Anche per quanto riguarda i docenti, quelli che hanno firmato la lettera chiedendo, in buona sostanza, di sospendere la collaborazione scientifica con le università israeliane sono circa duemila CLICCA QUI

Di nuovo, una minoranza che non arriva al cinque per cento, visto che i professori universitari italiani sono poco meno di sessantamila.

Tra i firmatari si può però vedere il nome di Valentina Pazè, docente di Filosofia politica a Torino e allieva di Michelangelo Bovero, che è stato a sua volta docente a Torino sulla cattedra che fu del grande filosofo, nonché senatore a vita, Norberto Bobbio, di cui recentemente si sono ricordati i vent’anni dalla scomparsa.

Di quella “scuola” ho fatto parte anch’io, apprendendovi soprattutto una lezione di metodo, che si può riassumere nelle parole con cui Bobbio apriva, in tempi di guerra fredda, il suo “Invito al colloquio” con gli intellettuali comunisti: “Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze. […] Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere”.

E se la prendeva con la “pseudocultura” degli improvvisatori, dei dilettanti e dei propagandisti interessati.

Quella lezione di metodo oggi a me sembra lettera morta.

Comprendo il furore giovanile di alcuni studenti, la loro indignazione e l’ansia di giustizia a fronte di immagini obiettivamente raccapriccianti che giungono da Gaza. Ci sono passato anch’io, sia pure sempre roso dal tarlo del dubbio: davvero le cose erano così semplici come apparivano ascoltando i giovani demagoghi che trascinavano all’applauso e all’azione le assemblee studentesche?

Davvero è così facile separare il giusto dall’ingiusto?

Ricordo studenti che si accaloravano citando Marx, Lenin e Mao (negli anni Settanta-Ottanta ancora si usava, ora non so) con grande successo oratorio, pur senza averne evidentemente mai letto una pagina intera. Molti di loro, negli anni successivi, hanno cambiato rotta, anche più di una volta, occupando posti di rilievo in quella tentacolare struttura capitalistica e imperialistica contro cui lanciavano i loro strali nelle assemblee convinti ingenuamente, come oggi, di contare qualcosa. Sono percorsi che fanno parte della crescita, e per alcuni passano dall’anelito a rivoluzionare il mondo. Ci sta, e in fondo è formativo.

Diverso è invece il caso di quella minoranza di miei colleghi o ex colleghi (io sono un docente universitario in pensione) che – pur essendo ormai cresciuti e avendo dedicato la vita allo studio, attività che dovrebbe comportare la precedenza della ragione sulle passioni, o, detto diversamente, la capacità di analisi approfondita e articolata dei fenomeni, compresi quelli politici – cavalcano quest’emotività anziché sentire la responsabilità di farne occasione di riflessione collettiva, dove si espongono dettagliatamente e si confrontano ponderatamente le ragioni e gli argomenti delle parti in conflitto, come suggeriva Bobbio. Questo dovrebbe essere, a mio modo di vedere, il compito degli studiosi, in particolare di quelli di area umanistica. Insomma, la funzione sociale dei cosiddetti “intellettuali”.

Invece fra questi colleghi mi pare si agitino alcune “mosche cocchiere”, per citare la favola di La Fontaine ripresa da Gramsci, che credono di sostenere utilmente la causa palestinese promuovendo boicottaggi, così come la mosca della favola che si vanta di aver trascinato una carrozza per una dura salita, illudendosi che zampettare dal naso del cocchiere al muso dei cavalli sia stato davvero importante per arrivare in cima alla collina.

Ma se far pressione per il boicottaggio con lettere e appelli fosse solo inutile, o una forma di autoconsolazione a fronte della nostra concreta impotenza, non sarebbe poi tanto grave. Ciò che rischia di essere grave è che dalla carenza di analisi razionale, combinata con la tendenza moralistica e manichea a dare facili patenti di buoni o cattivi, di vittime e carnefici, possono provenire, al di là delle intenzioni dei firmatari, rigurgiti antisemiti. Rischio che le comunità ebraiche italiane hanno di recente più volte denunciato.

Ovviamente, nel conformismo di nicchia di ciò che resta della sinistra radicale ogni discriminazione è bandita.

Ma quando ci si propone di manifestare la propria condanna sanzionando con il boicottaggio solo le università israeliane, e non quelle dei tanti Paesi che purtroppo violano sistematicamente i diritti umani, perseguitano minoranze e massacrano civili inermi, fregandosene dell’ONU e del diritto internazionale, allora un dubbio circa la coerenza di questi signori è legittimo.

Perché solo Israele? Nello specifico, perché l’Iran che fornisce armi a Hamas e Hezbollah non muove il loro sdegno e non li spinge a chiedere con forza misure analoghe?

A mia conoscenza, a fronte di tali domande questi signori tacciono senza apparente imbarazzo. Forse le considerano mal poste, o irrilevanti. Così a me viene il dubbio che abbiano un’inclinazione verso forme selettive di dogmatismo e fanatismo, anche quando provengono da illustri tradizioni di pensiero critico di cui si considerano sacerdoti e sacerdotesse, come ad esempio la sopra menzionata “scuola” bobbiana.  Di conseguenza mi domando se in questo caso l’esercizio del dubbio non sia per qualcuno soltanto una comoda maschera, un atteggiamento da esibire per coprire inconfessabili irrisolti retaggi di un passato che carsicamente riappare. 

Ermanno Vitale
Già Ordinario di Filosofia politica
Università della Valle d’Aosta

 

 

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