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Cronache
10 Marzo 2023 - 11:52
“Quando ti mettono nella tua cella, e senti sbattere il cancello, allora capisci che è tutto vero. L’intera vita spazzata via in quel preciso istante...” dal film “Le ali della libertà allo Zac!, un luogo, il Movicentro, che è tutto e non è niente, che è spazio aperto e chiuso in un bar, crocevia di persone e di umori, di ritmi e pensieri. Benvenuti a Ivrea. Cos’è il carcere in Italia? Cos’è la giustizia. E soprattutto esiste una giustizia giusta? E la tortura che riduce l’uomo in “oggetto” togliendogli ogni dignità? Ne vogliamo parlare?
Di questo s’è discusso giovedì scorso, di fronte ad un pubblico che più numeroso di così davvero non lo si sarebbe potuto immaginare.
Una serata preambolo di una “due giorni” organizzata, in collaborazione con Antigone, dalle Officine del Terzo Settore, un gruppo di cittadini messosi insieme quasi per magia e che tutto vuol fare salvo che girarsi dall’altra parte, come si fa sempre più spesso, come facciamo in tanti, presi dal ritmo della vita.
Sul palco Ilaria Cucchi, oggi parlamentare del Pd dal 2013, sorella di Stefano, morto nel 2009 in seguito ai maltrattamenti subiti durante la detenzione in una cella del carcere di Regina Coeli. La sua morte suscitò una grande indignazione nella società italiana, portando alla luce le condizioni spesso disumane delle carceri italiane, non in ultima la pratica della tortura.
Quella stessa pratica che nel 2020 accese i riflettori sul carcere di Santa Maria Capua Vetere e che oggi, con due inchieste aperte dalla Procura di Ivrea e altrettante dalla Procura di Torino ci fa dire “No” ai trattamenti disumani e alle umiliazioni.
Con lei l’avvocato Fabio Anselmo che la seguì in tutte le fasi di un processo durato sette anni, con 16 gradi di giudizio e 160 udienze. E poi anche il giornalista Nello Trocchia e il rapper Francesco Carlo detto Kento.
Ilaria Cucchi è stata una delle promotrice della legge contro il reato di tortura entrata in vigore nel 2017.
Nei processi che riguardano il carcere di Ivrea verrà applicata solo per alcuni dei fatti finiti nelle inchieste.
“Solo in Italia non esisteva ma è una legge che sembra nata per non essere applicata - ci ha spiegato Cucchi - E’ un monito ma non è uno strumento sufficiente...”.
Cucchi a Ivrea per dare voce a chi voce non ne ha. Per raccontare un’esperienza personale drammatica che ha distrutto la sua vita e fatto ammalare i genitori.
Poteva chiudersi, diventare cattiva, oppure trasformare quel dolore in qualcosa di positivo. Ha scelto la seconda diventando così portavoce non solo dei detenuti, ma dell’intero sistema carcerario dove si vive e si convive in condizioni disumane.
“Non verrò mai a dirvi che i poliziotti sono tutti picchiatori o che le carceri sono sbagliate - ha puntualizzato - Essere a Ivrea è l’inizio del mio sogno. Mettersi seduti intorno a un tavolo per discuterne. Sono ottimista. Se non lo fossi stata il processo non lo avremmo mai vinto e con questo spirito andremmo avanti...”.
“Ottimista” da quel giorno in cui dopo aver visto le foto del cadavere martoriato del fratello ebbe l’intuizione di telefonare all’avvocato che si era occupato del caso di Federico Aldrovandi.
“L’ho cercato ed è iniziata la mia seconda vita...”
Il racconto dell’intera serata, comunque, ha puntato il dito non solo sulle torture ma sull’intero sistema carcerario e giudiziario che non è messo nelle condizioni di lavorare.
“La giustizia? - ha alzato il tiro l’avvocato Fabio Anselmo - Ormai è diventata privata come la sanità. Chi ha soldi ha la possibilità di far valere i propri diritti nel processo. Chi non si trova in queste condizioni il processo lo subisce. Un cd con le intercettazioni costa 320 euro. Se devo fare la copia di un fascicolo devo andare incontro a spese che superano i 500 euro. Si parla di gratuito patrocinio ma non esiste. Lo Stato dovrebbe avere una sensibilità che non c’è...”.
E invece?
“Ogni riforma che arriva va ad incidere sulla dialettica, distruggendola - ha stigmatizzato Anselmo - pian piano trasformando l’aula di giustizia in un luogo in cui vige la legge del più forte...”.
Anselmo non le ha mandate a dire: “Quel che c’è oggi è un sistema che distrugge una famiglia che voleva provare ciò che era ovvio con le foto che parlavano da sole...”.
Stefano Cucchi fortunato perchè aveva una casa da ipotecare..
“Alla fine - ha raccontato Ilaria Cucchi - abbiamo incontro un giudice che ci ha dato ragione, ma se non ha gli strumenti hai voglia ad avere la schiena diritta...”.
Il guaio di oggi è che dalla Maggioranza di Governo stanno arrivando i primi segnali per la messa in discussione del reato di tortura.
“Non si vuole spendere per il carcere e per il sistema giudiziario - ha commentato con un malcelato senso di impotenza Anselmo - Si cerca il consenso elettorale della gente...”.
A dargli ragione Nello Trocchia, giornalista d’inchiesta, collaboratore di “Domani” e del “Fatto Quotidiano”, autore del libro “Pestaggi di Stato”, la prova del fallimento della struttura sociale ed istituzionale del nostro paese. Sua la spiegazione precisa dei fatti accaduti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020. Suo il racconto del reparto “Nilo” in un luogo in cui tutti i reparti hanno nomi di fiumi ma l’edificio non ha “acqua potabile”. Un libro sconsigliato a coloro che hanno parlato di ripristino della legalità dopo quei terribili fatti.
La verità è che quel pomeriggio 283 agenti della polizia penitenziaria, muniti di caschi e manganelli, alcuni a volto coperto, entrarono in quel reparto del carcere Francesco Uccella prendendo a calci, pugni, schiaffi i detenuti. Alcuni vennero rasati a forza e anche questo significa umiliare considerando che la barba la si fa crescere per tanti motivi, per un voto a Dio o per una promessa. Il pestaggio durò ore, proseguì nei corridoi, lungo le scale. Una mattanza. Nei giorni successivi i fatti vennero denunciati, ma il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria respinse le accuse.
L’altra sera, con ritmo serrato, Nello Trocchia ha ricostruito l’inchiesta che ha reso pubblici i video delle violenze riprese dalle telecamere di sicurezza, la testimonianza e le storie delle vittime e dei carnefici, il depistaggio operato dalla catena di comando, la noncuranza della politica. Perché tutto questo è potuto accadere? E perché si può ripetere ancora?
E poi?
E poi è stata la volta di Francesco Carlo detto Kento. Un rapper. Proprio così uno che canta e che come tanti amanti di questo genere di musica si concentra sulla “rabbia”. Opera da anni negli istituti di pena minorili e lo fa con passione. Di lui, ad ascoltarlo, altro non si può fare che innamorarsi. Glielo si legge negli occhi che vuole dare la sua vita a tutto questo. Poi cerchi informazioni su di lui nella rete e ti si apre un mondo fatto di groppi in gola, di pugni nello stomaco, di senso di impotenza e frustrazione. Ma da dove è uscito sto tipo qua, vien quasi da dirsi. Eppure c’è! Esiste. E’ lui. Un dottore che usa la sua musica per alleviare le sofferenze. Lo ha fatto con i ragazzi dell'Istituto minorile di Catanzaro. Avrebbero voluto fare una canzone per insultare i magistrati, ne è venuto fuori un capolavoro applaudito dagli stessi magistrati durante una serata a teatro.
Su Youtube un video in cui racconta le sue esperienze...
“C’è una parte del carcere minorile che è esattamente come ce la immaginiamo. Quindi ci sono le sbarre, ci sono i blindi, ci sono le serrature, c’è lo spioncino pure al cesso, c’è il pavimento di quella graniglia brutta. Ci sono le pareti di cemento ridipinte, ridipinte, di quei colori scialbi, così tante volte che sembra felpato, il cemento, però vi assicuro che non è felpato, assolutamente. C’è una parte del carcere che è esattamente quella che conosciamo, che ci immaginiamo, e vi assicuro che è la parte che fa meno paura. Adesso venite con me nei corridoi, provate a chiudere gli occhi e ad annusare, annusare, annusare, annusare. La sentite questa puzza complessa, stratificata? Vi aiuto a decodificarla. C’è disinfettante industriale, sicuramente. C’è una puzza di sudore che potrebbe ricordare quella delle palestre, dei campionati giovanili; però senza quel brivido bello di... speranza. Shampoo forse sì, ma non balsamo; deodorante forse sì, ma non acqua di colonia. E poi c’è la puzza della paura. Ecco, la puzza della paura non ve la so descrivere, se non dicendovi che sa un po’ di... Primordiale. Ok, adesso chiudete gli occhi, continuate a tenerli chiusi e chiudete il naso, se ci riuscite. Ascoltiamo: la chiave, la chiave bella pesante, quella d’ottone, gira nel blindo: ta-lac! Non tlac: ta-lac. C’è metallo dovunque, in carcere: si sente il metallo, metallo scosso, metallo bussato, metallo percosso, metallo strisciato; e poi, di nuovo, la chiave gira nel blindo: ta-lac. E poi ci sono i silenzi, in carcere. I silenzi sono la parte più difficile da raccontarvi...”.
Il giorno dopo, nella due giorni organizzata dalle Officine del Terzo Settore, Kento e Daniela Garcea (mixologist) hanno incontrato gli studenti. Nel pomeriggio si è svolto presso il Polo Infermieristico Universitario (ex ICO), un convegno vero e proprio, organizzato in tre tavoli di lavoro (Dentro, Fuori, Oltre il carcere).
Bene aggiungere che “Officine Terzo Settore” è una realtà nata di recente che ha preso forma durante una serata organizzata nel dicembre scorso allo Zac! per parlare di co-progettazione con Gianfranco Marocchi (rivista impresa sociale), Roberto Saba (presidente Open House impresa sociale), Monica Canalis (consigliera regionale Pd), Emanuele Gaito (sindaco di Grugliasco), Giuliana Vivo (Bellavista Viva), Marilisa Schellino (Parco Lago di città) e i sindacati Cgil, Cisl e Uilm.
“Officine terzo settore” come spazio aperto a tutto il terzo settore per progettare e confrontarsi sia su temi di interesse generale che su problemi concreti e specifici, per aiutarsi vicendevolmente e per pensare al bene di Ivrea. Insomma un luogo aperto a tutto il terzo settore, nel pieno rispetto dell’autonomia di ciascuno per promuovere la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica anche fuori dall’associazionismo “politico” e sindacale.
Da quella serata in avanti le “Officine Terzo Settore” hanno continuato a lavorare ed elaborare, soprattutto hanno riflettuto - e pure tanto - sul sistema carcerario in Italia con una sensibilità che guarda all’interesse generale, al bene comune e alla fragilità. Per ripensare alla pena “dentro, fuori e oltre il carcere”. Per andare alla ricerca di una giustizia rieducativa e non punitiva che cerchi “prospettive, soluzioni e buone prassi”.
E’ capitato tutto questo dopo un incontro con alcuni esponenti dell’associazione Antigone di Roma.
“Il carcere riguarda tutti, più vicino nel quotidiano di quanto vogliamo pensare....” sostengono i volontari delle “Officine”.
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