Fondamentale cambiare le regole per i musei, Franceschini con la sua riforma "va nella direzione giusta". Ma non basta. Perché l'Italia, se vuole avere un futuro, "deve anche ricominciare a investire sulla cultura", promuovere l'arte, "farla diventare popolare in modo che sia accessibile a tutti". All'estero da quando aveva trent'anni, con una parentesi di ritorno in patria per dirigere Artissima e poi guidare il Castello di Rivoli a Torino, Andrea Bellini, 44 anni e un curriculum fitto di incarichi prestigiosi e riconoscimenti, vive ora a Ginevra, dove guida le Centre d'Art Contemporain. Non ha partecipato al bando di gara lanciato dal governo italiano per i 20 musei pubblici più importanti. E almeno per il momento, confessa al telefono con l'ANSA, non ha alcuna intenzione di tornare in patria. "Ho sempre lavorato per passione. E qui in Svizzera lavoro bene, anche promuovendo artisti italiani contemporanei". Una situazione, racconta, condivisa con diversi altri esponenti della sua generazione, da Massimiliano Gioni (ora direttore artistico del NY Museum of Contemporary Art ndr) a Francesco Manacorda (direttore artistico della Tate di Liverpool): "Siamo andati via perché volevamo avere la possibilità di esprimerci, di realizzare progetti, di fare cultura. E all'estero non abbiamo avuto problemi, nessuno è così provinciale". Già. Perché in Italia, sottolinea, nel campo dell'arte contemporanea si vive una sorta di paradosso: "Salvo casi isolati una vera e propria struttura museale non esiste ma c'è una generazione di italiani che lavorano all'estero in istituzioni importanti, gli italiani hanno un ruolo interno all'arte del nostro tempo ed è anche un ruolo significativo". Certo, dice, "proprio la crisi del nostro paese ci ha spinti ad andare fuori, ora parliamo correntemente tre lingue, viviamo esperienze importanti. Mi auguro che un giorno saremo messi nelle condizioni di tornare". Tant'è. Perché se il progetto di Franceschini convince ("L'ho ascoltato qualche mese fa a Roma, i suoi discorsi mi sembrano interessanti") e la riforma appena avviata "sembra andare nella direzione giusta", il giudizio del giovane direttore sulla situazione della cultura italiana è complessivamente duro: "I professionisti che dall'estero vengono in Italia sono coraggiosi, quasi eroici, vengono a mettersi in gioco in un sistema museale che è da decenni strutturalmente debole, in un paese nel quale c'è una carenza strutturale di fondi. Perché in Italia, e questo è il problema, si investe pochissimo in cultura, in conservazione e nella promozione, pochissimo sull'arte contemporanea". Mentre un altro problema, sostiene, è la tendenza ad una cultura come prodotto elitario: "Non va bene, dobbiamo rendere popolare l'arte e fare in modo che sia a disposizione di tutti perché l'arte ha un potere liberatorio, di trasformazione sociale. Bisogna aprire, essere inclusivi". No, quindi, alle polemiche sulle nomine ("pretestuose e sterili"), ora bisogna andare avanti, continuando sulla strada del cambiamento e investendo di più. "I fondi vanno trovati", sostiene. "Se non investiamo in ricerca e in arte siamo finiti, rinunciamo alla possibilità di avere un futuro, rischiamo di diventare un Paese dove andare in pensione". E se la crisi costringe a rivedere il modello europeo di uno Stato che si fa completamente carico della cultura, ben venga "una terza via, con il pubblico che investe senza fare passi indietro e aperture ai privati, purché sempre all'interno di regole precise, io ci credo". Insomma, è il momento di voltar pagina: "Franceschini si sta impegnando veramente a cercare di reinventare il sistema museale italiano. Ora staremo a vedere. Ma rispetto all'immobilismo e alla disattenzione totale di tanti governi precedenti - conclude - questo è un segnale positivo che ci lascia ben sperare".
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