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26 Ottobre 2025 - 11:22
Abu Hassan era nato nel 1950 tra gli ulivi piantati dalla sua famiglia dopo essere stata sfollata nel 1948. Ha trascorso tutta la vita nel villaggio di Deir Istiya, in Cisgiordania, coltivando la terra e allevando bestiame insieme ai figli. Gli ulivi, tramandati di generazione in generazione, erano diventati per lui simbolo di resistenza e appartenenza. Negli ultimi anni, però, la sua vita era stata segnata da continue vessazioni: i coloni israeliani, anche adolescenti, lo avevano aggredito più volte, distrutto i raccolti, inquinato la sorgente d’acqua della famiglia e demolito le condutture installate dal comune. Eppure Abu Hassan non aveva mai reagito, temendo di perdere per sempre quella terra che amava.
Lo scorso giugno, un ragazzo di tredici anni gli ha strappato di mano il suo bastone — un pezzo di legno ricavato dagli stessi ulivi piantati dal padre — e lo ha spezzato in due. Pochi istanti dopo, Abu Hassan è crollato a terra colpito da un infarto, stringendo ancora quel bastone spezzato. “È morto di qahr”, hanno detto i familiari, “di crepacuore e oppressione.”
La sua storia è diventata il simbolo della vita quotidiana di migliaia di palestinesi che vivono sotto occupazione nella Cisgiordania. Dopo il 7 ottobre 2023, con la ripresa della guerra a Gaza, la violenza dei coloni e le restrizioni israeliane si sono moltiplicate: centinaia di contadini non hanno più potuto raggiungere i propri campi, migliaia di alberi sono stati distrutti e interi villaggi sono stati isolati dal muro di separazione, che secondo le Nazioni Unite per l’85% si trova all’interno del territorio palestinese.
Un altro agricoltore, identificato come Hashem, non ha più potuto accedere ai suoi 300 ulivi perché un insediamento israeliano illegale ha occupato parte della sua terra con il pretesto di creare una “riserva naturale”. Casi come il suo, ha spiegato l’esperto Fuad Abu Saif, mostrano come la Cisgiordania sia ormai diventata “una prigione a cielo aperto”, dove la violenza, la scarsità d’acqua e i posti di blocco impediscono ogni forma di vita autonoma.
Di tutto questo ha parlato Giorgio Franco al 191° presidio per la pace. Sono stralci di un pezzo di Anan Tello – giornalista Siriana residente in Inghilterra (da Invicta palestina). Ha invitato a riflettere su una realtà che definisce “una pace senza giustizia”. Ha ricordato che mentre si parla di disarmo, la Knesset ha votato per l’annessione della Cisgiordania e la Rai ha cancellato la messa in onda del documentario No Other Land perché “non in sintonia con il clima di speranza”. “Ma quale speranza?”, si è chiesto Franco.
Nella sua riflessione, ha aggiunto che Hamas è il prodotto diretto dell’occupazione e che non si può parlare di terrorismo ignorando il contesto della colonizzazione. Ha citato la Risoluzione 37/43 dell’ONU del 1982, che riconosce ai popoli sotto dominazione straniera il diritto di resistere “con tutti i mezzi disponibili, inclusa la lotta armata”. “La violenza non è iniziata con Hamas”, ha detto, “ma con la colonizzazione. Finché esisterà l’occupazione, esisterà anche la resistenza.”
Ha ricordato infine che la Nakba del 1948 ha creato 750 mila rifugiati e distrutto oltre 500 villaggi, e che Gaza vive da quasi vent’anni sotto un assedio che priva la popolazione di acqua, elettricità e libertà di movimento. “È una punizione collettiva su scala industriale – ha concluso – una violenza lenta che uccide non solo le persone, ma anche le possibilità.”
Insomma ancora una volta si sono ritrovati lì, come ogni sabato, in piazza di città. Cittadini, attivisti, pacifisti, volti noti e sconosciuti, per dare voce all’indignazione e alla speranza.
Pierangelo Monti ha aperto la mattina ricordando la maratona di lettura dei nomi dei bambini e delle bambine uccisi a Gaza: “Una carneficina che continua da due anni, un orrore che abbiamo scelto di non dimenticare”, ha detto.
Poi il discorso si è spostato sul cosiddetto “piano di Trump”, quello che avrebbe dovuto portare una nuova fase per il Medio Oriente, ma che – ha osservato Monti – “ha rischiato di franare, come tutto ciò che nasce sull’ingiustizia e sull’arroganza”. Israele, ha spiegato, ha continuato a voler annettere ogni brandello di Palestina, dalla Striscia di Gaza alla Cisgiordania. “Questo è il più grande ostacolo alla pace, inaccettabile persino a Trump”, ha aggiunto. Ma anche sul fronte palestinese la situazione è rimasta incerta: non è stato chiaro come si potrà arrivare a un governo rappresentativo, capace di includere le diverse fazioni. “In ogni caso – ha sottolineato – non potrà esserci alcuna soluzione senza la partecipazione delle organizzazioni palestinesi”.
E mentre si parla di tregua, a Gaza e in Cisgiordania continuano a morire civili: oltre cento palestinesi solo nell’ultima settimana. Cinque di loro erano tornati tra le macerie per cercare resti delle proprie case. “Sono stati uccisi perché hanno superato una linea gialla che esiste solo su una mappa”, ha denunciato Monti. “Una linea che non esiste nella sabbia ma nella mente di chi confonde sicurezza con sterminio.”
La Rete Italiana Pace e Disarmo ha pubblicato un appello il 10 ottobre: “Non può esserci pace senza giustizia. Chi ha responsabilità per i crimini di guerra deve essere giudicato. Non può esserci pace se Israele non si ritira dai territori occupati illegalmente dal 1967, se non si risolve la questione dei profughi palestinesi, se la comunità internazionale continua a usare doppi standard.”
Si chiede una conferenza internazionale di pace sotto l’egida dell’ONU, il riconoscimento dello Stato palestinese con i confini precedenti al 6 giugno, Gerusalemme Est come capitale condivisa, e la sospensione della vendita di armi a Israele.
Ma non c'è stata solo Gaza al centro delle riflessioni. Monti ha ricordato che anche tra Russia e Ucraina la guerra continua a mietere vittime: due bambini e quattro adulti uccisi da un raid russo nella regione di Kiev, droni e missili che hanno sventrato case, mentre Mosca e Kiev continuano a riarmarsi. “Nessuno parla più di pace, tutti parlano di vittoria. E la vittoria è l’anticamera di un’altra guerra”, ha ammonito.
Poi la tragedia dei migranti: quaranta morti, tra cui neonati, al largo della Tunisia. “I governi europei, Italia compresa, sono complici di queste morti. Lo ha detto anche Leone XIV, l’altro ieri in Vaticano: gli Stati trattano gli indesiderabili come spazzatura”. Citando Evangelii Gaudium di Papa Francesco, ha ricordato che “la disuguaglianza è la radice di tutti i mali sociali”.
Monti ha quindi allargato lo sguardo e ha rievocato l’atto fondativo dell’ONU, firmato ottant’anni fa: “Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra…”. Ma oggi, ha commentato con amarezza, quel sogno sembra spezzato: “Eppure, non posso dire che sia stato inutile. Quelle parole restano una bussola morale, un’idea di umanità da cui ripartire.”
Ha poi ricordato la Settimana del Disarmo, dal 24 al 30 ottobre, l’appello delle Nazioni Unite contro la corsa agli armamenti. “Ogni euro speso per armarsi è un euro rubato alla pace”, ha detto. Nel 2025 il governo italiano ha stanziato 45 miliardi per le spese militari, e ne ha previsti 146 entro il 2035: più di quanto si spende oggi per la sanità pubblica. “Spendere altri 800 miliardi per preparare guerre è pura follia.”
E poi c'è Cernobbio. Mentre il Forum Ambrosetti discuteva di mercati e potere, un altro forum – l’Altra Cernobbio – lanciava l'iniziativa: “Addio alle armi.” Nel documento finale si legge: “La scelta del riarmo porta alla guerra, distrugge il diritto internazionale, prepara la terza guerra mondiale. Solo disarmo, giustizia sociale e cooperazione possono costruire pace.”
Da qui è nata la Carovana Fermiamo il Riarmo, promossa da Sbilanciamoci! e dalla Rete Pace e Disarmo. Dal 20 ottobre al 4 dicembre sta attraversando l’Italia: dagli stabilimenti Stellantis di Cassino e Cameri, dove si assemblano gli F-35, fino agli ospedali, alle scuole, ai centri per migranti e ai consultori. La tappa finale si terrà al Senato della Repubblica, con la presentazione della “Controfinanziaria”.
Cadigia Perini ha portato la voce della Relatrice Speciale ONU, Francesca Albanese, che ha definito il genocidio di Gaza “un crimine collettivo, sostenuto dalla complicità di Stati terzi”. Nelle sue raccomandazioni, Albanese ha chiesto la sospensione di ogni relazione militare e diplomatica con Israele, l’espulsione del Paese dalle Nazioni Unite e l’adesione a campagne di boicottaggio e disinvestimento finché non cesserà l’occupazione.
Livio Obert ha ricordato che “ciò che è accaduto a Gaza ha superato in crudeltà qualsiasi altra guerra recente”. Ha letto la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e gli articoli delle Convenzioni di Ginevra che vietano la fame come arma di guerra: “Israele non ha firmato il protocollo, ma la fame resta un crimine di guerra. È un principio universale: non si fa morire di inedia un popolo.” Ha poi annunciato un incontro a Ivrea, il 17 novembre, con don Nandino Capovilla, parroco veneziano, autore del libro “Sotto il cielo di Gaza”, scritto insieme a Betta Tusset: “Un libro che racconta la vita tra i muri, ma anche la dignità di chi resiste con la fede e con la poesia”, ha sottolineato, ricordando le preghiere di Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme.
Rosanna Barzan è intervenuta leggendo l’articolo di Rossella Puca sul Ddl Gasparri, definito “legge bavaglio”, che equipara antisionismo e antisemitismo. “Una proposta autoritaria – ha stigmatizzato – che colpisce la libertà di pensiero e di insegnamento. È il tentativo di mettere il silenziatore alla solidarietà con la Palestina.”
Il presidio si è chiuso con le parole di Beppe Frattaroli, e l'invito a non confondere i conflitti: “La questione ucraina non è la Palestina. Non c’è simmetria tra aggressori e oppressi.” Ha poi espresso solidarietà ai giovani manganellati a Bologna: “Chi manifesta per la pace non deve mai essere trattato come un nemico.”
A Ivrea, tra bandiere e silenzi, un gruppo di persone da quasi quattro anni, ogni sabato, si ritrova nello stesso luogo per dire che non tutto è perduto. Forse, come ha ricordato Pierangelo Monti, “non ci arrendiamo alla disperazione perché vogliamo ancora sperare operando e operare sperando.”
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