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04 Ottobre 2025 - 18:09
C’è un momento, nel primo pomeriggio, in cui Roma smette di essere Roma. I clacson tacciono, i semafori diventano irrilevanti e le strade si riempiono di un unico colore: il rosso, il bianco, il verde e il nero della bandiera palestinese. È da Porta San Paolo che parte un boato, un’onda che travolge tutto: tamburi, cori, cartelli, volti di bambini, madri che sventolano striscioni, studenti che gridano “Stop al genocidio” e uomini che marciano con gli occhi lucidi. La città si ferma, letteralmente, mentre il corteo si allunga fino al Colosseo. Gli organizzatori parlano di un milione di persone, altri di seicentomila: ma a contare davvero, oggi, non sono i numeri. È l’aria che si respira. Quella densa, elettrica, di chi non accetta più di restare in silenzio.
Roma è attraversata da un fiume umano che non ha bisogno di leader né di partiti. Le bandiere dei movimenti politici restano piegate, perché questa volta il grido è uno solo: libertà per la Palestina. E mentre la testa del corteo sfiora il Colosseo, la coda è ancora a Porta San Paolo, come un’unica arteria che pulsa, forte, dentro il cuore del Paese. Dalle finestre si affacciano cittadini comuni, molti applaudono, altri scattano foto, qualcuno piange. Le fermate della metro – Piramide, Colosseo – sono chiuse, ma nessuno sembra lamentarsi: il traffico si è dissolto, sostituito dal ritmo lento e cadenzato della folla che cammina, spalla a spalla, scandendo parole che suonano come preghiere laiche.
Non è una manifestazione come le altre. È una marcia che nasce dalla rabbia, ma si nutre di speranza. C’è chi arriva da lontano, chi ha viaggiato tutta la notte in pullman, chi porta un cartello scritto a mano: “Gaza non è sola”. Le prime notizie parlano di dieci autobus partiti dalle Marche, altri dal Sud, altri ancora dal Nord Italia. A ogni incrocio si aggiungono persone, famiglie, ragazzi. A ogni passo cresce il coro: “Stop al genocidio!” — urlato, ripetuto, moltiplicato da megafoni e voci umane che si rincorrono tra i palazzi.
Le forze dell’ordine osservano, presidiano, ma non intervengono. Il Viminale aveva predisposto un piano di sicurezza rigido: controlli agli accessi, vie chiuse, pullman perquisiti. E infatti, in mattinata, erano state sequestrate maschere antigas, mazze e tute bianche su alcuni mezzi diretti alla Capitale. Ma il corteo, almeno fino al tardo pomeriggio, resta pacifico. Solo qualche tensione isolata, qualche slogan acceso, qualche cartello più duro. Nulla di più.
Tra la folla si intravedono anche Sabrina Ricciardi e altri esponenti del Movimento 5 Stelle, che marciano accanto ai cittadini comuni. “Siamo qui per dire basta alle stragi e alle bombe su Gaza”, spiegano, mentre dal fronte opposto Riccardo Magi di +Europa invita Giorgia Meloni “a smettere di fare vittimismo politico e ad ascoltare la piazza che chiede giustizia”. L’appello degli organizzatori era chiaro: nessuna bandiera di partito, solo simboli palestinesi. E così è stato, almeno per la grande maggioranza dei presenti.
Intanto, da Circo Massimo, arrivano altri gruppi che si uniscono al flusso. Studenti, sindacati di base, comunità islamiche, associazioni pacifiste. È un mosaico variegato, ma unito da una sola parola: pace. Le voci si mescolano ai tamburi, ai canti, al suono dei passi sull’asfalto. In mezzo alla folla, qualcuno alza un telefono e inquadra il Colosseo, coperto di bandiere. Roma non aveva visto una piazza così da anni.
Quando il corteo raggiunge piazza San Giovanni, la luce del pomeriggio si piega al tramonto. Dalla scalinata della basilica, una ragazza alza un cartello fatto con un pezzo di cartone: “Gaza chiama, Roma risponde”. E attorno a lei un’ovazione esplode, come se quelle parole fossero riuscite a condensare tutto il senso di una giornata che non è solo protesta, ma testimonianza.
Il traffico resta bloccato, le linee dei bus deviate, ma la città, per una volta, sembra accettare il caos come fosse un respiro collettivo. Si sente l’eco dei megafoni, le voci che si sovrappongono, i cori che si fanno preghiera. Non ci sono leader da applaudire, né slogan preconfezionati: solo persone che camminano insieme, convinte che la pace non si chieda con gentilezza, ma con la forza della presenza.
E così, mentre il sole cala dietro i palazzi e la bandiera palestinese continua a sventolare sopra un mare di teste, Roma si riscopre per un giorno capitale della solidarietà, della rabbia, della coscienza civile. Una città che ha risposto, in massa, a un appello che non ha confini né appartenenze. Un appello che, oggi più che mai, risuona chiaro: “Gaza chiama, Roma risponde”.
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