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24 Agosto 2025 - 10:46
Sabato 23 agosto. A Ivrea passa la Vuelta di Spagna: la città si riempie di applausi, di bandiere, di biciclette che sfrecciano veloci. Ma lungo lo stesso percorso, tra i tifosi che acclamano i corridori, c’è anche un gruppo di cittadini che non guarda alla gloria sportiva, bensì alla tragedia umana che insanguina il mondo. Con cartelli e parole semplici, invocano la fine di tutte le guerre. È così che prende forma il 182° presidio per la pace, quell’appuntamento che da oltre due anni, con ostinata continuità e una resilienza senza paragoni, scandisce ogni sabato eporediese come un battito regolare di coscienza collettiva.
Pierangelo Monti prende la parola con voce grave, quasi rotta dallo sconforto. Non vede spiragli, solo l’avanzare implacabile di una logica di potenza che divora ogni tentativo di mediazione. Parte dall’Ucraina, dove i colloqui di Anchorage e Washington non hanno aperto nessuna prospettiva. Mosca e Kiev restano intrappolate in una spirale di ostinazione: nessuno arretra, entrambi stremati, entrambi convinti di dover vincere sul campo. Due giorni fa, la Russia ha scatenato uno degli attacchi più feroci degli ultimi mesi: 574 droni e 40 missili si sono abbattuti sul Paese, mentre la popolazione civile paga il prezzo più alto. Monti cita allora le parole di Pasquale Pugliese del Movimento Nonviolento, che ricorda un sondaggio Gallup: «Il 69% degli ucraini chiede oggi una fine negoziata della guerra, contro appena il 24% che vuole continuare a combattere». Un’inversione radicale rispetto al 2022, segno che il popolo è allo stremo, che i disertori crescono, mentre i governi restano sordi, prigionieri di un ingranaggio bellico che si autoalimenta. «Le spese militari sono l’unico vero affare dei governi» – dice Monti – «e lo dimostra l’atteggiamento di Trump, che non regala più armi ma le vende, trasformando la guerra in un gigantesco mercato». Basta osservare le borse europee: ogni voce di trattativa fa crollare i titoli delle aziende di armamenti. Ma qui, a Ivrea, la voce è un’altra: «disarmo, dialogo, nonviolenza».
Poi lo sguardo corre alla Palestina, dove la tragedia non ha più aggettivi. Monti parla senza esitazioni di genocidio. «Gaza è ridotta a un cimitero di macerie: il 90% degli edifici è distrutto, la carestia dichiarata dall’Onu minaccia mezzo milione di persone, tra cui 132.000 bambini. Si muore di fame, di sete, di malattie, si muore sotto le tende dei campi profughi bombardati». Eppure il governo israeliano prosegue, sostenuto dagli Stati Uniti e da un Trump che ha avuto l’ardire di definire “eroe di guerra” chi di fatto porta avanti una politica criminale. Persino in Italia non sono mancate critiche: Guido Crosetto e la stessa Giorgia Meloni hanno parlato di “salto di qualità” nell’occupazione, ma alle parole non è seguito alcun atto concreto. Gli accordi militari restano saldi, così come la complicità silenziosa. È in questo contesto che don Renato Sacco invita Crosetto a un confronto pubblico davanti alla base di Cameri sugli F-35. Monti cita anche Giangiacomo Migone, che sul Fatto Quotidiano scrive: «Per fermare Netanyahu a Gaza occorre l’intervento militare dell’Onu. Altrimenti sono chiacchiere». La strada, dice Monti, è una sola: «isolare Israele sul piano internazionale, sospendere i rapporti commerciali e militari, costringerlo a fermarsi». Le parole di Luisa Morgantini risuonano forti: «Salviamo il popolo palestinese dal genocidio, fermiamo i coloni messianici, applichiamo sanzioni, chiudiamo le ambasciate, basta con la vendita di armi».
A dare ancora più forza al presidio c'è Cadigia Perini. Legge un’intervista dello scrittore ebreo americano Nathan Thrall, premio Pulitzer 2024. «A Gaza è pulizia etnica», dice Thrall senza ambiguità, denunciando una società israeliana che da decenni ha disumanizzato i palestinesi. «Le grandi manifestazioni interne non cambiano nulla: la maggioranza sostiene o tollera il progetto di espulsione». E ancora: «La convinzione che il problema sia solo Netanyahu è una comoda bugia che serve a non agire». Thrall ricorda che la stessa nascita di Israele fu accompagnata da atti di pulizia etnica e che definire democrazia uno Stato fondato sulla discriminazione dei palestinesi è un inganno.
Giorgio Franco si aggiunge con un estratto dello storico Kyle J. Anderson. Spiega come il sostegno dei repubblicani americani e del movimento Maga a Israele sia parte di una battaglia culturale. «Israele è l’ultimo avamposto di un colonialismo che altrove è stato spazzato via. Algeria, Kenya, Zimbabwe hanno conosciuto processi di decolonizzazione, la Palestina no. Per i nostalgici del potere imperiale, Netanyahu non è un problema, ma un modello». Israele diventa così uno specchio che l’Occidente rifiuta di guardare, perché vi riconoscerebbe le proprie colpe storiche.
Monti ricorda che ieri, su invito di Papa Leone XIV, si è celebrata la giornata mondiale di preghiera e digiuno per la pace, già anticipata il 14 agosto dalle superiore generali di 1.903 congregazioni. Ma non basta pregare: servono azioni. E le azioni arrivano subito.
Il 28 agosto sarà la giornata nazionale di digiuno contro il genocidio a Gaza, promossa da medici e operatori sanitari. Le richieste sono chiare: «sospendere gli accordi militari con Israele, riconoscere formalmente il genocidio e boicottare l’azienda farmaceutica Teva».
Ogni cittadino sarà invitato a digiunare, a scattarsi una foto con il cartello “Digiuno contro il genocidio a Gaza” e a diffondere il messaggio.
E ancora, il 31 agosto partirà dalla Spagna la Freedom Flotilla, la più grande flotta mai organizzata per rompere l’assedio: navi cariche di cibo e aiuti, a cui se ne uniranno altre dalla Tunisia e da diversi porti del Mediterraneo. Tra gli organizzatori c’è Claudio Tamagnini di Alcamo, conosciuto anche a Ivrea, e l’appello è a sostenerne gli sforzi.
Il presidio si chiude con un invito concreto: «Lunedì 25 agosto, alle 17.30, si terrà un incontro presso la sede dell’Associazione Donne contro la discriminazione, al Meeting Point di piazza Mascagni».
È un appuntamento che non guarda indietro, ma avanti. Perché, mentre la città applaudiva i campioni della Vuelta, qualcuno ha ricordato che la vera corsa non è quella delle biciclette, ma quella contro la guerra. Una corsa lunga, durissima, che sembra senza fine. Ma il traguardo, anche se lontano, ha un nome semplice e universale: giustizia.
***
Raccontare, ogni sabato, il presidio per la pace di Ivrea non è una routine, né un vezzo redazionale. È un impegno. E' una scelta editoriale. È un modo per dire che in Italia, tutte le settimane, c’è qualcuno che non si rassegna al silenzio e che guarda alla sofferenza di quella povera gente che a Gaza muore di fame e sotto le bombe, che in Ucraina cade sotto i missili, che ovunque nel mondo viene travolta da guerre dimenticate. Farne la cronaca significa dare voce a chi non ce l’ha, trasformare il piccolo gesto di una piazza in un grido collettivo che solo un giornale può amplificare.
È un modo per impedire che, tra qualche anno, qualcuno possa dire: voi dov’eravate, mentre i bambini morivano? Perché la storia, prima o poi, presenterà il conto. E dirà chi stava dalla parte giusta e chi dalla parte sbagliata. È sempre stato così.
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