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Il presidio per la pace ricorda Bettazzi a due anni dalla sua scomparsa

Nel 177° Presidio per la Pace, a due anni dalla morte di Luigi Bettazzi, cittadini e attivisti denunciano i crimini israeliani, la complicità dell’Unione Europea e chiedono all’Italia di uscire dal silenzio. Tra le voci in piazza anche le testimonianze sui prezzi della fame e le verità occultate dagli aiuti "umanitari"

Sessanta presenze reali. Sessanta corpi e coscienze in una piazza svuotata dalla canicola estiva e dal torpore delle ferie. Sessanta persone che hanno scelto di esserci, ancora una volta, per testimoniare che la pace è un dovere civile, e che il genocidio non può essere ridotto a un rumore di fondo.

A Ivrea, sabato 19 luglio 2025, il 177° Presidio per la Pace si è trasformato nell'ennesimo grido corale. Un grido composto, ma intransigente. Un grido che ricorda, accusa, propone, costruisce. Un grido che parla di Gaza, di Luigi Bettazzi, dell’Europa complice, della fame come arma, della speranza come resistenza.

A due anni esatti dalla morte di Monsignor Luigi Bettazzi, Ivrea lo ha ricordato nel modo che più gli sarebbe piaciuto: portando in piazza la sua voce. A evocarlo è stato Pierangelo Monti, che ha aperto il presidio con una constatazione brutale: sono passati due anni da quando ci ha lasciati, ma il mondo è peggiorato.

La guerra tra Russia e Ucraina continua, e da quasi due anni Israele bombarda la Striscia di Gaza. E non solo: colpisce anche la Cisgiordania, il Libano, lo Yemen, l’Iran, ora la Siria.

Bettazzi, oggi, non starebbe zitto. E infatti non sta zitto. La sua lettera postuma ai politici italiani, letta durante il presidio, è un testamento civile che attraversa le coscienze come una lama.

"No, non si prepara la pace con le armi. La pace si costruisce con la giustizia. La guerra è una scelta. Sempre. Anche quando si finge che non ci siano alternative." Una voce disarmata che accusa senza sconti: "L’Italia aumenta le spese militari, manda armi, taglia la scuola e la sanità. E tace. Siete davvero sicuri che questa sia la direzione giusta?"

A prendere la parola è stata poi Patrizia Dal Santo, vicesindaca di Ivrea, appena rientrata dalla marcia Oropa–Santhià, ispirata alla Global March To Gaza. Migliaia di passi mossi da uno sdegno collettivo.

Secondo Dal Santo, la pace la fanno i popoli, dal basso. Anche piccoli Comuni possono organizzare marce locali. Poi ha letto la petizione che accompagnerà i camminatori fino a Milano e Roma, e che verrà inviata al Governo, al Parlamento, alla Presidenza della Repubblica, alle Ambasciate, all’Unione Europea e alla Santa Sede.

I firmatari chiedono un cessate il fuoco permanente, lo stop all’export di armi verso Israele, l’accesso umanitario garantito, la condanna delle violenze sui civili, la promozione di una cultura di pace e riconciliazione.

"Camminiamo per Gaza, ma anche per difendere la dignità della nostra Repubblica, fondata sul ripudio della guerra", si legge nel documento. Le prime 509 firme sono già state consegnate in Prefettura a Milano il 14 luglio, al termine della prima tappa.

Tra gli interventi più forti, quello di Luca Oliveri, che ha portato in piazza l’inchiesta di David Calef pubblicata su HaKeillah, la rivista ebraica progressista. Il tema è scottante: la cosiddetta Gaza Humanitarian Foundation, una ONG creata per gestire gli aiuti a Gaza, ma rivelatasi una trappola. Fondata nel Delaware dopo il ritorno di Trump, diretta dal reverendo Johnnie Moore, la GHF ha rimpiazzato le agenzie ONU, accusate – senza prove – di collusione con Hamas. Il risultato è che da 200 centri di distribuzione si è passati a 4, in una Gaza sventrata, affamata, priva di acqua e combustibili. Pasta, riso, bulgur da cuocere dove non c’è fuoco. Mille e settecentocinquanta calorie al giorno, sotto la soglia umanitaria. E i droni che sparano sui civili in fila per mangiare. Un teatro di sangue pensato per spingere i palestinesi a fuggire, a disperdersi, a essere deportati.

Letizia Carluccio ha raccontato che a Gaza non ci sono più soldi in contanti. Le banche bloccano le donazioni. E anche le piccole associazioni ora chiedono di non mandare più nulla, perché non si trova più niente da comprare. Ha aggiunto che l’unica speranza è che il popolo israeliano si sollevi, che scenda in piazza contro il genocidio.

Monti è tornato a prendere la parola per denunciare l’ennesima vergogna istituzionale. Il 15 luglio, a Bruxelles, l’Unione Europea ha deciso di non sospendere l’accordo di associazione con Israele. Neppure l’Italia ha votato a favore. Nessuna delle dieci misure proposte – sanzioni, embargo, sospensione dei trattati – ha ottenuto sostegno. Amnesty International ha parlato di “momento vergognoso” nella storia europea. E aveva ragione. L’ipocrisia è doppia: si fa la voce grossa solo quando le vittime sono cristiane. Dopo il bombardamento israeliano contro la parrocchia della Sacra Famiglia di Gaza, il cardinale Pizzaballa si è recato sul posto con 500 tonnellate di aiuti e una telefonata da Papa Leone XIV: "È ora di porre fine a questa strage. Una guerra non si conclude con la guerra. Servono scelte politiche." Ma Israele minimizza. Parla di “errore”. Sempre errori, ha ribattuto Monti. E intanto le stragi continuano. Ogni giorno. È genocidio, e non basta mai per fermare la complicità dell’Occidente.

Tra le testimonianze più dolorose, quella di padre Romanelli, ferito nel bombardamento. A Gaza la farina costa 18 euro al chilo, i pomodori 23, lo zucchero 100. Quando si trova. Tutto è distrutto, tutto è morte. E le esplosioni, ormai, fanno parte dell’ordinarietà quotidiana. E mentre la fame si fa arma, Israele colpisce ancora: questa volta in Siria. Novecento tra morti e feriti. Si arroga il diritto di bombardare ovunque. È il gendarme del Medio Oriente, accusa Monti.

La proposta finale è concreta: esporre i simboli della pace anche dove si fa sport, al Canoa Club sulla Dora. E chiedere alla vicesindaca di tornare a esporre lo striscione per Beit Ummar sul balcone del Comune.

Infine Norberto Patrignani ha ricordato l’80° anniversario del Trinity Test, la prima esplosione nucleare della storia. Era il 16 luglio 1945, nel deserto del New Mexico. Una bomba al plutonio, sorella di quella sganciata su Nagasaki. Un sole rosso nel cielo dell’apocalisse. Le parole di Melissa Parke (ICAN) e di Francesco Vignarca (Rete Disarmo) lo hanno ricordato con forza. Non era un deserto vuoto, ma terra abitata, piena di vita, comunità, sacralità. Da quel giorno, il mondo non è stato più lo stesso. Ma da quel giorno è anche iniziata la lotta per il disarmo. E oggi, sono proprio le comunità colpite da quegli esperimenti – spesso minoranze silenziate – a guidare il movimento per l’abolizione delle armi nucleari.

Durante il presidio sono stati distribuiti due testi. Uno firmato Daniele Luttazzi, che con la sua satira crudele demolisce le frasi aberranti di Smotrich e Ben-Gvir, ministri israeliani che considerano eroici i coloni assassini e morali i piani di fame. "Gaza è alla fame, ma i bambini – scrive Luttazzi – giocano a 'Trova una caloria' o a nascondino con i droni. Israele non blocca gli aiuti, li interroga."

L’altro testo, firmato Tomaso Montanari, è un durissimo j’accuse. Israele sta compiendo un genocidio. Lo afferma anche Omer Bartov, docente di genocidio alla Brown University, ebreo, ex ufficiale IDF, storico dell’Olocausto. Negare il genocidio – scrive Montanari – significa diventare complici. Anche l’Italia rischia una condanna internazionale. I responsabili politici – Meloni, Tajani, Crosetto – potranno essere chiamati a rispondere presso la Corte Penale Internazionale. Perché se non si chiama genocidio quello che sta accadendo a Gaza, allora abbiamo tradito anche il “Mai più” che ogni anno ripetiamo il 27 gennaio.

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