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Magari fosse solo un genocidio

Ivrea, il 176° presidio per la pace è un grido contro l’annientamento dell’umano

Non è più solo questione di missili, di razzi, di città in macerie e bambini sventrati. Non è nemmeno più solo la tragedia della Palestina o dell’Ucraina. È l’umano che sta crollando. Lo si è capito fin troppo bene, sabato scorso, in piazza di città a Ivrea durante il 176° presidio per la pace. Lo si è capito nelle parole di Pierangelo Monti, che ha aperto l’incontro con una denuncia pressoché scontata: “È passata un’altra settimana di guerre, stragi, distruzioni e sofferenze”.

Non serve nemmeno aggiornare il bollettino. Ogni giorno a Gaza muoiono bambini, madri, infermieri. E ogni giorno, chi dovrebbe proteggerli, li chiude dentro un confine, li affama, li cancella.

La direttrice dell’UNICEF, Catherine Russell, ha usato un’espressione che non dovrebbe mai comparire in un comunicato ufficiale: “è inconcepibile”. Eppure è vero. È tutto questo – fame, disperazione, orrore – a essere diventato normale.

Israele, attraverso il ministro della Difesa Gallant, ha annunciato la creazione di una “città umanitaria” a Rafah. Un nome pulito per una realtà sporca: un campo di concentramento da 600.000 persone, senza possibilità di uscita.

Amos Goldberg, storico dell’Olocausto all’Università Ebraica di Gerusalemme, non ha girato intorno alle parole: pulizia etnica.

Intanto i coloni incendiano le chiese nei villaggi cristiani della Cisgiordania, come a Taybeh. E se il mondo non reagisce, è perché gli affari sono troppo buoni. Lo ha spiegato Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU, nel suo ultimo rapporto: “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”.

Vi compaiono 48 multinazionali e tra le altre: Leonardo S.p.A., che produce gli F35; Google, Microsoft, Amazon, che offrono servizi e tecnologie; IBM, che gestisce la banca dati biometrica dei palestinesi; Volvo, Hyundai, Caterpillar, che forniscono ruspe per radere al suolo i villaggi. E poi i grandi gestori finanziari: Vanguard, Allianz, AXA. L’intero mercato globale si arricchisce sulla distruzione di un popolo.

Per questo, ha detto Monti, "ogni trattato commerciale con chi occupa e annienta è complicità". E mentre Israele e gli Stati Uniti sanzionano Francesca Albanese, il presidio propone la sua candidatura al Premio Nobel per la Pace.

Le voci critiche aumentano. Persino Papa Leone XIV, rivolgendosi alla FAO, ha denunciato “l’uso della fame come arma di guerra” e lo scempio di un pianeta dove le risorse per nutrire l’umanità vengono dirottate verso la produzione di armi.

“I leader ingrassano con i profitti del conflitto”, ha detto. Ma è ancora peggio: ingrassano sull’estinzione della speranza.

E intanto in Ucraina i raid russi continuano, colpendo anche ospedali per la maternità. La risposta – da tre anni e mezzo – è una sola: armi, armi, ancora armi. Non si intravede alcuna trattativa. Solo nuovi invii militari, e ora persino la NATO pronta a rifornire Kiev con missili Taurus, con il voto favorevole anche di esponenti del centrosinistra europeo, come ha denunciato Maurizio Acerbo di Rifondazione. “Un emendamento dell’estrema destra votato anche da pseudo-riformisti del PD”.

Ma la pace non è morta. Migliaia di persone sabato scorso al concerto di Cristiano De André hanno urlato “Palestina libera”. E da tre mesi, in Israele, un gruppo di donne mostra le foto dei bambini uccisi davanti alla base militare di Tel Nof, chiedendo ai piloti: “Perché avete premuto il pulsante?”. Una di loro, Yali Marom, ha chiesto: “Per quale ragione non smettere?”. E sa già la risposta: Netanyahu preferisce restare al potere piuttosto che salvare vite.

A Gerusalemme, altre donne hanno scritto con i gessetti: “Stop al genocidio”.

A Caselle, giovani attivisti hanno srotolato una bandiera palestinese sul tetto della Leonardo.

E al Valentino a Torino, oltre 300 ricercatori del CNR hanno dichiarato: “Noi non collaboriamo con la guerra”.

Monti ha ricordato anche la Legge 185 del 1990, che impone trasparenza sull’export di armi italiane. Una legge minacciata oggi da una proposta di modifica che aprirebbe le porte al traffico di morte. Ma la società civile – come 40 anni fa con la campagna contro i mercanti d’armi – si è rimessa in moto.

Livio Obert ha portato un messaggio diverso: a Cuorgné, durante un incontro con Emergency, la bandiera della pace è stata appesa sul municipio. Senza polemiche, senza censure.

Poi ha letto un brano di Raniero La Valle, una delle coscienze morali del Paese. “Magari fosse un genocidio”, scrive. Perché il genocidio presuppone ancora che si riconosca l’altro come parte dell’umanità. Qui invece si nega persino questo. I palestinesi vengono definiti “animali umani”, la striscia di Gaza un allevamento da chiudere. La pace, dice La Valle, è ormai “il nuovo nome dell’annientamento”.

E l’unico che oggi potrebbe varcare quella soglia dell’inumano è un Papa che vada a Rafah, come voce dell’intera umanità.

Il presidio ha dato spazio anche ad Aldo Sottofattori, che ha messo in discussione il modello stesso di Stato-nazione, e a Enrico Bandiera (M5S), che ha annunciato un reading dal titolo “La Palestina non esiste”. Non per negare, ma per denunciare: la cancellazione fisica e simbolica di un popolo.

E poi la notizia che ha sorpreso tutti: in Kurdistan il PKK ha deposto le armi. Lo ha raccontato Norberto Patrignani, con passione e senso storico. È l’effetto del pensiero di Abdullah Öcalan, che dalla sua prigione ha riscritto il destino di un popolo. Non più guerra, ma autogoverno, ecologia, emancipazione delle donne. Un modello – quello della Rojava – che mostra al mondo che un’altra strada è possibile.

Ma è anche nel quotidiano che si gioca la coerenza. Patrignani ha chiuso ricordando che usare WhatsApp, guidare una Tesla, investire nei titoli sbagliati significa alimentare il sistema che vogliamo combattere. “Noi al presidio ci arriviamo in bici”, ha detto. Un gesto piccolo, ma rivoluzionario.

Il 176° presidio non ha offerto illusioni. Ma ha gridato che l’indifferenza è complicità. E che oggi, più che mai, serve scegliere da che parte stare.

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