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La storia di Viktoria Roshchyna - torturata, uccisa e mutilata in Russia - è quella di un giornalismo che non si arrende. Che ne sarà degli altri 30 ancora prigionieri?

Perché il corpo di Viktoria Roshchyna, reporter ucraina scomparsa nell’estate 2023, è stato restituito solo mesi dopo la sua morte, privo di occhi, cervello e laringe? E gli altri reporter? Un’inchiesta internazionale svela l’orrore delle prigioni russe e l’attacco sistematico alla libertà di stampa

Viktoria Roshchyna

Viktoria Roshchyna, la giornalista ucraina uccisa in una prigione russa dopo mesi di torture e silenzio.

Nessuno sapeva dove fosse finita Viktoria Roshchyna. Per mesi, il suo nome era scomparso nel silenzio plumbeo dei territori occupati, inghiottito da una Russia che neanche voleva riconoscerne la detenzione. La giornalista ucraina, appena ventisettenne, era stata rapita nell’estate del 2023 mentre indagava su prigioni segrete gestite dall’FSB a Melitopol. Aveva osato troppo, ancora una volta. Aveva varcato linee invisibili ma feroci, per documentare ciò che troppi fingono di non vedere.

La notizia della sua morte ha iniziato a circolare solo nell’ottobre 2024. Ma il suo corpo, restituito in un sacco di plastica etichettato come “resti di un uomo non identificato”, era stato riportato in Ucraina già a febbraio 2025, nell’ambito di uno scambio silenzioso di cadaveri. Nessuno aveva detto nulla. Nessuno aveva spiegato. Solo dopo un’indagine lunga e delicata - sostenuta da testate come The Guardian, IStories, The Moscow Times, Ukrainska Pravda e Forbidden Stories - si è potuto affermare con certezza che quei resti martoriati appartenevano proprio a lei.

La conferma del DNA, compatibile al 99,9% con quello dei suoi genitori, ha messo fine all'attesa, ma ha aperto un abisso. Viktoria era stata torturata. Lo ha dichiarato Yuriy Belousov, responsabile dell’unità crimini di guerra presso l’Ufficio del Procuratore generale ucraino, parlando apertamente di segni evidenti di maltrattamenti. Bruciature da scosse elettriche ai piedi, escoriazioni alla testa e all’anca, una costola fratturata, l’osso ioide spezzato, come accade nei casi di strangolamento. E poi il dettaglio che cambia tutto: il corpo era stato restituito senza cervello, senza occhi, senza laringe. “Non è normale, nemmeno in una procedura autoptica - ha dichiarato un patologo forense - La rimozione della laringe può servire a eliminare prove di strangolamento. Il sangue negli occhi o la frattura dell’osso ioide raccontano molto. Forse troppo”.

Secondo le fonti ucraine, Viktoria era stata destinata a uno scambio di prigionieri previsto per settembre 2024. Era stata già trasferita dal carcere di Taganrog - tristemente noto come luogo di torture sistematiche - al centro detentivo Lefortovo di Mosca. Ma qualcosa è andato storto. L’ufficiale russo che avrebbe dovuto coordinare il passaggio, secondo quanto riferito da un altro detenuto a The Guardian, avrebbe detto: “È colpa sua”. Viktoria non è mai salita sul furgone. Non è mai uscita da quella prigione. Forse, non l’ha mai neanche lasciata davvero.

La verità sulla sua morte emerge in frammenti, come schegge lanciate contro un vetro già incrinato. Viktoria era una freelance. Nessuna redazione l’aveva mandata, ma tutti pubblicavano i suoi reportage. Hromadske, Ukrainska Pravda, Radio Free Europe. Era instancabile. Aveva già conosciuto l’orrore nel marzo 2022, quando fu arrestata a Berdjansk. Scrisse, al suo rilascio: “Durante la penultima visita dell’FSB, quasi non riuscivo a stare in piedi. Uno dei ceceni mi colpì, dicendomi che non ero a casa mia e dovevo stare zitta”. Eppure, tornò nei territori occupati almeno tre volte dopo quell’episodio. Nessuno poteva fermarla. Non lo fecero nemmeno le botte, nemmeno la fame, nemmeno la paura.

La storia di Viktoria è quella di un giornalismo che non si arrende. Che sceglie di raccontare anche quando nessuno vuole ascoltare. Per questo oggi la sua morte scuote, lacera, interroga. Perché non si tratta solo di una giovane donna assassinata. Si tratta di un sistema che reprime la verità con la violenza. Si tratta di un corpo restituito senza occhi per non farci vedere, senza cervello per farci dimenticare, senza voce per non farci sapere.

Secondo l’Institute of Mass Information (IMI), dal 2014 ad oggi almeno 112 giornalisti ucraini e stranieri sono stati presi in ostaggio o detenuti dalla Russia. Trenta di loro sono ancora oggi prigionieri. Centotre sono stati uccisi, e almeno dodici mentre svolgevano il proprio lavoro sul campo. Questi non sono numeri. Sono nomi, storie, volti. Come quelli di Iryna Danylovych, Vladyslav Yesypenko, Dmytro Khyliuk, Iryna Levchenko, Amet Suleymanov, Anastasia Hlukhovska. Come i volti nella grafica dell’IMI che ci fissa come un’istantanea di chi ha pagato il prezzo più alto.


E dall’altra parte? Le vittime tra i giornalisti russi in Ucraina sono molte meno e quasi tutte riconducibili a contesti di prima linea. Andrej Stenin, fotoreporter di RIA Novosti, è morto nell’agosto 2014 mentre viaggiava con un convoglio colpito da un attacco. Igor Korneljuk e Anton Vološin, della TV russa, sono rimasti uccisi nel giugno 2014 vicino a Luhansk. Anatoliy Klyan, cameraman di Channel One, è stato colpito a Donetsk. Più di recente, sono stati documentati i decessi di Boris Maksudov e Rostislav Zhuravlev, anch’essi in aree di conflitto. Ma nessuno di questi casi presenta le caratteristiche di detenzione sistematica, sparizione o tortura.

Ulteriori nomi di giornalisti russi uccisi includono: Sergey Dolgov, Vladlen Tatarsky (ucciso in un attentato a San Pietroburgo nel 2023), Dmitry Tsilikin e Artyom Borovik, sebbene alcuni casi siano collegati a motivazioni interne, politiche o criminali, e non direttamente all’Ucraina. Anche secondo le autorità russe, i casi di giornalisti uccisi in Ucraina durante le ostilità sono stati trattati come vittime collaterali del conflitto e non come bersagli di arresti mirati.

Non vi è nulla, tuttavia, di sistematico o istituzionalizzato nelle loro morti. Nessun caso di sparizione forzata durata mesi, nessun corpo restituito senza organi, nessuna prigionia documentata senza capi d'accusa formali. Persino la Russia, nei pochi casi in cui ha parlato di arresti, ha invocato motivazioni di spionaggio o terrorismo per giustificare la detenzione di giornalisti ucraini. Non vi è alcun parallelo.

Eppure, non tutti vogliono ammetterlo. La narrazione è fragile, e chi prova a raccontarla dall’interno paga spesso un prezzo. Mark Innaro, ex corrispondente Rai da Mosca, ha dichiarato di essere stato censurato - non dalla Russia, ma dall’Italia - per aver mostrato in TV una mappa dell’espansione NATO. Ha criticato il paragone tra Putin e Hitler, ha definito la Russia “un paese immenso ma vulnerabile, che avrebbe dovuto essere incluso in una nuova architettura di sicurezza europea”. Eppure, anche lui, giornalista embedded negato da un lato, concesso dall’altro, è una voce di un’informazione tagliata, selezionata, condizionata.

L’analisi dei dati complessivi mostra che il numero di giornalisti detenuti, torturati o scomparsi da parte russa è esponenzialmente superiore. Le testimonianze raccolte dal 2014 al 2025 mostrano oltre cento casi documentati di rapimenti, incarcerazioni arbitrarie, torture e condanne fittizie. Molti di loro, tra cui Oleksiy Bessarabov, Dmytro Shtyblikov, Marlen Asanov, Amet Suleymanov, Ernes Ametov, Remzi Bekirov, e tanti altri, sono stati imprigionati con accuse di terrorismo o spionaggio per il semplice fatto di raccontare la realtà nei territori occupati. Dall’altro lato, l’Ucraina ha arrestato alcuni reporter russi nei primissimi anni del conflitto, ma nessuno ha subito torture o detenzioni prolungate senza processo documentate da fonti indipendenti.

Anche organizzazioni come Reporter Senza Frontiere, Committee to Protect Journalists e OSCE hanno più volte documentato le violazioni russe contro la stampa nei territori occupati, parlando apertamente di una “soppressione sistematica del giornalismo indipendente” e di “uso della tortura per ottenere confessioni estorte da diffondere nei media controllati dallo Stato russo”.

Ciò che emerge, alla fine, è un quadro disarmante: in Russia, i giornalisti ucraini vengono torturati, mutilati, uccisi e restituiti senza organi. In Ucraina, i giornalisti russi raramente sono fermati e, quando lo sono, accade in contesti di frontiera o in zone di guerra. Nessun sistema, nessuna struttura repressiva alle spalle.

La morte di Viktoria Roshchyna non è un fatto isolato. È il simbolo di una guerra che si combatte anche con le parole, con la memoria, con la verità. È il grido soffocato di chi ha scelto di non voltarsi dall’altra parte.

E se oggi parliamo di lei, è solo perché 45 giornalisti da tutto il mondo hanno deciso di completare l’inchiesta che Viktoria aveva iniziato, di raccontare quello che le è stato impedito, di darle, con la parola scritta, l’unico organo che non potranno mai strapparle: la voce.

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