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13 Aprile 2025 - 20:34
Wood Wide Web: sotto la superficie, una connessione millenaria che stiamo spezzando.
Quando nel 1989 Tim Berners-Lee battezzò la prima rete mondiale con l’acronimo WWW, il mondo cambiò. World Wide Web divenne il simbolo della connessione globale, l’alfabeto del futuro, il tessuto digitale che avrebbe collegato l’umanità. Ma c’era un’altra rete, ben più antica, silenziosa, invisibile. Una rete che l’uomo non ha creato, ma che ha avuto sotto gli occhi per milioni di anni. Solo oggi iniziamo davvero a comprenderla. Ed è proprio lei, la vera prima WWW: il Wood Wide Web.
Quella che oggi chiamiamo Internet della Natura esiste da quando esistono gli ecosistemi. Non è fatta di cavi, di server, di cloud, ma di segnali. Odori impercettibili, richiami acustici, riflessi di luce, vibrazioni nel terreno, reazioni biochimiche tra foglie, funghi e radici. Un lupo che sente l’odore dell’alce e cambia sentiero. L’alce che percepisce la minaccia e si nasconde. Una pianta che riceve un messaggio d’allarme da un albero vicino e inizia a produrre una sostanza difensiva. Una falena attratta da un ritmo luminoso, che guida il suo volo notturno. Tutti questi sono dati. Informazioni che si muovono in una rete viva, dinamica, millenaria.
Nel marzo 2024, uno studio pubblicato sulla rivista Nature Ecology & Evolution ha dato un nome definitivo a questo meccanismo straordinario: “Internet della Natura”. L’autore principale, il professor Ulrich Brose del German Centre for Integrative Biodiversity Research e dell’Università Friedrich Schiller di Jena, ha spiegato in un’intervista a Science Daily che “capire i processi ecologici senza considerare il flusso di informazioni è come analizzare i sistemi economici ignorando Internet”. Brose e il suo team hanno dimostrato che negli ecosistemi non si muovono solo energia e materia, ma anche segnali, e che questi segnali regolano il comportamento degli esseri viventi in modi finora sottovalutati.
Non è un concetto del tutto nuovo. Negli anni ’90, l’ecologa canadese Suzanne Simard aveva già dimostrato l’esistenza di una rete di comunicazione tra gli alberi, basata su filamenti di funghi micorrizici che attraversano il sottosuolo. Pubblicando la sua ricerca su Nature nel 1997, Simard rivelò che gli alberi, soprattutto quelli più vecchi e robusti, inviavano nutrienti ma anche veri e propri segnali d’allarme alle piante più giovani, per avvisarle di siccità, parassiti, predatori. Un sistema di mutuo soccorso e comunicazione vegetale che l’opinione pubblica battezzò Wood Wide Web. E che oggi trova nuovi e sorprendenti riscontri grazie ai progressi della bioacustica, della biologia del comportamento e delle neuroscienze vegetali.
Nel gennaio 2025, durante un simposio presso il Forest Sciences Centre dell’Università della British Columbia, un aggiornamento delle ricerche di Simard ha confermato che le piante non solo ricevono e rispondono ai segnali, ma lo fanno in modo selettivo, favorendo quelle geneticamente più vicine. Una forma primordiale di empatia evolutiva che ribalta l’immagine della foresta come luogo di pura competizione.
Ma mentre la scienza decifra con stupore questo linguaggio segreto della natura, l’uomo continua, spesso senza rendersene conto, a cancellarlo. Il traffico urbano, l’inquinamento acustico, le luci artificiali, le vibrazioni meccaniche degli impianti industriali interferiscono con i segnali vitali degli animali e delle piante. Miriam Hirt, coautrice dello studio di Brose, ha sottolineato che “il traffico stradale e le strutture industriali interferiscono con i segnali vibratori che le formiche usano per coordinarsi”. Una perdita apparentemente invisibile, che però può compromettere la coesione e la sopravvivenza delle colonie.
I danni sono documentati. Uno studio condotto in Svezia dall’Università di Lund, pubblicato da Science Nordic il febbraio scorso, ha mostrato una riduzione del 38% nella frequenza dei richiami riproduttivi degli anfibi esposti all’inquinamento acustico. Senza quei richiami, gli individui non si trovano, non si accoppiano, non si riproducono. E muoiono. In un altro studio firmato da Macgregor e colleghi nel 2017 per il Journal of Applied Ecology, si è osservato che l’illuminazione artificiale notturna riduce l’impollinazione da parte delle falene del 62%. Le piante, private di quegli impollinatori silenziosi, smettono di fiorire. E così, senza rumore, si spegne un intero ecosistema.
La drammatica verità che emerge da tutto questo è che la distruzione ambientale non passa solo attraverso la deforestazione o lo scioglimento dei ghiacciai. Passa anche, e soprattutto, attraverso la distruzione della comunicazione naturale. Stiamo frantumando il linguaggio con cui il mondo vivente si trasmette informazioni vitali. Stiamo zittendo la natura, rendendola cieca e sorda nel momento in cui più avrebbe bisogno di adattarsi.
E allora, se vogliamo davvero proteggerla, dobbiamo cambiare sguardo. Non possiamo più limitarci a salvare gli alberi. Dobbiamo salvare i segnali: il buio delle notti stellate come il silenzio che permette agli animali di ascoltarsi. Ed ancora, i profumi trasportati dal vento che guidano gli insetti; le vibrazioni del terreno che parlano a chi vive sotto. Perché senza questo flusso, senza questa rete sensoriale millenaria, la natura non sa più dove andare. E nemmeno noi.
La verità è che l’uomo ha speso decenni, forse secoli, a costruire una rete artificiale di connessioni. Ha creato Internet, ha sviluppato il World Wide Web, ha sognato l’iperconnessione. Ma non si è accorto che la rete più potente e perfetta era già lì, sotto i suoi piedi, intorno a lui, sopra di lui. La natura aveva il suo WWW e ci parlava. Noi, semplicemente, non l’abbiamo ascoltata.
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