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Torino
12 Novembre 2024 - 00:10
Da debuttante olimpico, si è messo al collo due medaglie, d’argento. Sorride Filippo Macchi, il fiorettista pisano, figlio e nipote d’arte, cresciuto a latte e scherma. Perché sì, avrebbe potuto finire meglio, ma era più facile fare peggio. È arrivato a Casa Tennis per incontrare gli appassionati, non solo di scherma, e curiosi, per raccontarsi, dopo aver vissuto l’esperienza più incredibile, quella sognata costantemente, cioè loro olimpico, che la sorte gli ha fatto sfuggire per un non niente. Ma, già guarda al futuro. L’oro e il gradino più alto del podio sono solo rimandati. Questione di passione, prima di tutto.
Filippo che cosa è stata per te questa prima Olimpiade?
"Un’ossessione, ma non in negativo. Anzi, è stata l’ossessione più bella. Negli ultimi tre anni, ho sempre pensato alla pedana del Grand Palais. Mi ripetevo sempre: “Ricordati che quello è il tuo sogno: vincere a Parigi”. È stata benzina. Ho lavorato quotidianamente per visualizzarmi sul gradino più alto del podio. Pensavo di avercela fatta, invece devo ricominciare da capo, guardando a Los Angeles 2028".
Il comico Davide D'Urso e il giornalista Alberto Dolfin che dialogano con Filippo Macchi
Cosa è successo in quell’ultima stoccata nell’individuale?
"Quella stoccata l’avevo sentita mia. Parlo della prima delle tre. A caldo ho evitato qualsiasi tipo di commento, perché non avevo rivisto le immagini. Me la sono sognata diverse volte e sono sempre convinto che quello fosse un attacco mio. Resto dell’idea che non ci sia stata malafede: piuttosto avrei dovuto chiudere l’assalto prima, quando ero sul 14-12. Ho avuto un po’ di sfortuna: l’avevo pure preso Cheung, ma non si è accesa la luce. Gli errori arbitrali ci sono, a favore o contro: è giusto che il mio rivale, bicampione olimpico si goda la sua medaglia".
E l’argento a squadre?
"Quell’argento ha un sapore diverso, anche alla luce del cambiamento a cui ci siamo dovuti adattare. Daniele Garozzo, un perno fondamentale nonché il capitano della squadra, ha avuto un problema al cuore e si è dovuto ritirare. Lui, in pedana, chiudeva. Non è stato facile ricompattarsi. Anche per questo dico che è stata una medaglia bellissima. Alessio Foconi è entrato in gara a freddo: io avevo un problema al braccio, ma avremmo comunque fatto di tutto per farlo salire in pedana. Meglio un argento in quattro che un oro in tre. C’è una regola sciocca, nella scherma olimpica, secondo cui se un atleta non tira non prende la medaglia. Noi avevamo deciso che Alessio avrebbe dovuto esserci".
Sul podio chi hai portato?
"Tantissime persone. Il ricordo di mio nonno Carlo, quasi un secondo padre, e quello del maestro Antonio Di Ciolo.
La scherma, per te, è questione di dna.
"Sì. I miei genitori si sono conosciuti in pedana, io vengo da una palestra dove la presidente è mia nonna, il maestro principale era mio nonno Carlo. La mia fidanzata Giulia fa scherma: sua mamma Diana (Bianchedi, ndr) ha vinto due Olimpiadi".
Vieni da una terra di scherma: c’era anche Pisa a Parigi?
"Io sono un pisano doc. Pisa la porto nel mio cuore, sono “malato” del Pisa. Questa è la città che mi ha cresciuto, mi ha fatto diventare uomo. Senza il mio maestro attuale, Marco Vannini non sarei arrivato fin qui. Sì, lui è livornese ma di scuola pisana, perché è nato e cresciuto con Antonio Di Ciolo. Io ho un po’ di Livorno addosso e lui ha tanto di Pisa".
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